Di Battista: «L’obbedienza agli Usa non è più una virtù. Il neo-M5s? Attendo le proposte politiche»

Risponde al telefono dalla Bolivia, dove si trova per scrivere alcuni reportage sull’America Latina. «Si fatica a respirare a queste altitudini, sto bevendo acqua a piccoli sorsi». All’altro capo della cornetta c’è Alessandro Di Battista, ex parlamentare del Movimento cinque stelle, oggi attivista politico e reporter. La passione politica non gli manca, il M5s in cui ha creduto – e che ha contribuito a far crescere – invece sì. Una storia d’amore, come scrive l’ex deputato romano nel libro Contro!, edito da PaperFirst, finita con la scelta del Movimento di sostenere «un presidente del Consiglio iperliberista» come Mario Draghi.

Ora Di Battista – che recentemente ha aperto un blog – sta alla finestra, aspettando le mosse del nuovo leader Giuseppe Conte. Ma tiene la barra dritta sulla necessità di opporsi al «governo dell’assembramento», portando avanti i temi su cui non è disposto a scendere a compromessi, dal multilateralismo al contrasto dello strapotere della finanza. Tra le sue passioni, oltre a scrivere e viaggiare, c’è proprio l’America Latina, terra martoriata da squilibri insostenibili (leggi anche Le nuove vene aperte dell’America Latina). Venerdì scorso ha visitato le miniere del Monte Cerro Rico a Potosí, dove i minatori respirano «tonnellate di gas nocivo per campare», estraendo argento e zinco che «per secoli hanno sostenuto lo sviluppo europeo».

Alessandro Di Battista con alcuni minatori boliviani. Foto tratta dalla sua pagina Facebook

Perché è interessante l’America Latina e cosa può insegnare all’Europa e all’Italia in particolare?

«Innanzitutto politicamente sono convinto che l’Italia dovrebbe aprirsi di più all’America Latina, tessendo maggiori relazioni, anche per ragioni culturali. Poi, se da un lato l’ipercapitalismo trova il suo luogo di forza negli Stati Uniti che impongono, oggi soprattutto attraverso gli investimenti dei colossi della finanza, determinate politiche al mondo, alcuni Paesi dell’America Latina rappresentano l’argine al sistema capitalistico finanziario, che non ha fatto che allargare la forbice socio-economica del pianeta, come mai nella storia dell’umanità. Sembra un paradosso, ma non credo che nel 1500 vi fosse, tra il signore di un Comune e l’ultimo dei contadini, la stessa differenza socioeconomica che corre oggi tra l’ad di Amazon e l’ultimo dei suoi dipendenti. Vero che non il capitalismo ma il progresso ha portato ad una produzione soprattutto alimentare che oggi in molti paesi garantisce una sopravvivenza che 50 anni fa non era garantita. Ma mai come nella storia dell’umanità degli individui hanno detenuto personalmente più ricchezza di interi stati messi assieme. Oggi alcuni individui sono singolarmente più potenti degli stati».

Il Monte Cerro Rico in Bolivia. Foto tratta dalla pagina Facebook di Alessandro Di Battista

In America Latina, però, ci sono popoli che stanno lottando per cambiare le proprie sorti. Pensiamo al Cile che dopo un anno e mezzo di imponenti manifestazioni, con morti e feriti, è riuscito ad archiviare la Costituzione di Pinochet e si spera costruirà un Paese più giusto. Lo stesso sta avvenendo in Colombia, dove da quasi due mesi il Paese è in piazza per chiedere modifiche radicali di sistema. In Perù, nonostante il ritardo nella proclamazione, ha vinto le presidenziali Pedro Castillo, che propone un cambio radicale. Come nella stessa Bolivia, dove è tornato al governo il Mas (Movimiento al socialismo). C’è una voglia di riscatto in America Latina?

«Assolutamente sì. Negli ultimi anni il movimento socialista latinoamericano, che ha delle caratteristiche proprie, ha avuto delle difficoltà. Nell’ultimo anno invece sta rinascendo, anche perché il Covid ha ampliato le disparità sociali che c’erano già e sono aumentate dal crollo del Muro di Berlino. Attenzione perché anche in Italia c’è un disagio latente di cui ancora non ci si rende conto. Ecco perché sono uscito dal Movimento 5 stelle quando ha appoggiato un presidente del Consiglio iperliberista come Mario Draghi. Nei giorni scorsi è morto un sindacalista (Adil Belakhdim, ndr), sembra di essere tornati indietro agli anni ’60 e la politica non se ne rende conto. L’America Latina sta rispondendo. La Colombia, da sempre satellite degli Usa, che negli anni 2000 ha vissuto mediamente meglio di altre nazioni, oggi è un Paese dove piccoli imprenditori, studenti, lavoratori, contadini e operai stanno manifestando assieme, nel silenzio generale, soprattutto del sistema mediatico. Se gli incidenti colombiani fossero successi in Venezuela ci avrebbero aperto i tg di tutto il mondo» (leggi anche Colombia, fame e rabbia in piazza. «Senza un vero cambiamento altri cent’anni di solitudine»).

Il Covid ha sicuramente amplificato le storture di fondo del sistema, che in America Latina si vedono ancora più chiaramente, perché è il “cortile di casa” degli Stati Uniti e una regione dove i contrasti sono più netti, in tutti i sensi. Le ricette neoliberiste, sostanzialmente iniziate in Cile con Pinochet e ora rigettate dal popolo cileno, sono state poi applicate anche in Africa, un altro continente di cui lei si è spesso interessato. Il problema di fondo, quindi, è il sistema economico?

«Concordo. Il dramma è che lo strapotere del sistema liberista va di pari passo con la più grande debolezza della politica internazionale. Lobbies, gruppi di potere, gruppi industriali ci sono sempre stati. Oggi dettano legge ancor di più perché la politica è debole come non mai. Oggi sono i capi di stato che chiedono un incontro al ceo di BlackRock, non avviene il contrario».

In America Latina, però, ci sono delle alternative, come abbiamo visto. In Europa – e in Italia in particolare – non sembra esserci nemmeno l’alternativa. Come scrive nel libro, manca persino l’opposizione…

«In questo momento in Italia non c’è alcuna alternativa ad un sistema socioeconomico iperliberista».

Il M5s delle origini, pur non essendo marcatamente antiliberista, aveva comunque delle tendenze antisistema in direzione di una maggiore equità economica che oggi sembrano perse.

«Il M5s di anni fa aveva sicuramente caratteristiche anti-establishment che oggi non ha, governando insieme all’establishment. Allo stesso modo riconosco al M5s, soprattutto nel primo anno di governo, di aver realizzato una serie di misure senza le quali – e non a caso vengono attaccate da Confindustria – le condizioni generali del nostro Paese sarebbero decisamente peggiori. Mi riferisco al decreto dignità, alla legge anticorruzione e al reddito di cittadinanza. Ho lasciato il M5s perché oggi lo reputo una forza politica parte del sistema, ma riconosco al M5s di aver realizzato leggi molto utili al Paese, in particolare in questa fase post-Covid».

Non pensa però che questo ammansirsi del M5s rischi di mettere a repentaglio anche le battaglie giuste e i provvedimenti portati a casa?

«I miei ex colleghi mi dicono che stando dentro riescono a difendere maggiormente quelle battaglie piuttosto che stando fuori. Secondo me non è così, però queste sono visioni diverse…».

Nell’epilogo del libro scrive che si sente solo. Colpisce perché si riferisce non solo alla perdita della madre ma anche alla situazione politica.

«Posto che anch’io ho avuto le mie incoerenze, come tutti, io non ho mai cambiato idea per convenienza personale. Questo, nell’Italia profondamente democristiana – parlo della classe politica – senz’altro ti fa sentire solo. Però è una solitudine che sono disposto ad affrontare, anche perché proprio non riesco a dire qualcosa che non penso».

Alessandro Di Battista e il suo nuovo libro. Foto tratta dalla sua pagina Facebook

Nell’introduzione invece elenca una serie di temi politici: dalla messa in discussione della Nato alla causa palestinese, dal conflitto d’interessi al reddito universale. Sembra un manifesto politico in fieri

«Me l’hanno detto in tanti, ma quei temi li ho scritti proprio per far capire che il mio abbandono del M5s non è dipeso da alcun dissidio personale, anzi. Ho lasciato il M5s in un momento in cui il M5s voleva moltissimo che io restassi, era il Movimento a cercarmi. L’ho lasciato perché ho delle idee dissimili e ho voluto elencare una serie di questioni. Basta guardare la questione palestinese: io mi sono schierato chiaramente, il M5s invece non si è espresso».

Lei ha fatto la campagna elettorale del 2018 da non candidato, contribuendo al quasi 33% del M5s. Ma perché, davvero, non si è candidato?

«Io sono fatto così: avevo dato tutto in quei cinque anni e avevo bisogno di cambiare vita per un po’. Per me l’idea di ritornare in viaggio a scrivere insieme alla mia famiglia (ho fatto dei reportage per Il Fatto Quotidiano dalla California e dal Centroamerica) era ed è un’occasione irripetibile. Oggi che ho due figli e il primo ha quasi quattro anni, sarà molto più difficile fare quel tipo di esperienza che Sahra e io abbiamo fatto in quel periodo. Per cui la verità è questa, non c’è mai stata alcuna dietrologia da parte mia. Nessuna strategia, anzi la prima volta lo dissi ad Andrea Scanzi in televisione nel 2014 che non mi sarei ricandidato. Certo, non immaginavo di tornare e poi di dovermi allontanare per ragioni politiche dal M5s. Ero convinto che avrei potuto avere un ruolo all’interno del M5s, dopo il mio ritorno. Soprattutto come responsabile di nuovi temi, come ho fatto per il servizio civile ambientale, che in questo momento è l’idea principale di cui si sta discutendo negli Usa».

Il M5s di Conte: lei è alla finestra, però i segnali non sembrano andare nella direzione che auspica…

«Non lo so, quello che ho detto pubblicamente a Conte gliel’ho detto anche privatamente. Lo stimo e sto a guardare. Io non mi faccio convincere da incarichi. Attendo le proposte politiche del neo-M5s».

Foto tratta dalla pagina Facebook di Alessandro Di Battista

Lei critica l’atlantismo e l’europeismo appiattito sull’atlantismo. Anzi, sostiene il multilateralismo. Con Draghi non ne parliamo, ma neppure con Conte sembrano esserci praterie in questo senso…

«Io considero europeismo e iperatlantismo antitetici. E oggi, per citare Don Lorenzo Milani, l’obbedienza agli Stati Uniti d’America non è più una virtù».

Non pensa allora che ci sia bisogno di un altro sistema, a livello politico, culturale, ideologico? Il M5s si dichiarava né di destra né di sinistra, ma oggi che il sistema lo ha più o meno “fagocitato”, non pensa ci sia bisogno di ricostruire un nuovo orizzonte, per esempio un nuovo socialismo?

«Io, come mi ha insegnato Gianroberto (Casaleggio, ndr), tendo solo a prendere posizioni politicamente senza doverle per forza catalogare. Anche perché la maggior parte dei giovani oggi non si definisce di destra o di sinistra. Per me le idee sono o buone o cattive, non per forza di destra o di sinistra. Quello che per me manca oggi non è un nuovo partito di destra o di sinistra, ma politici capaci di prendere posizioni nette. E di assumersi la responsabilità delle posizioni che prendono».

Non è però difficile mantenere le proprie idee senza un solido ancoraggio a dei principi di fondo, a un orizzonte?

«Certo, ma questo non significa che nel 2021 sia necessario essere catalogati in due categorie fine-settecentesche».

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