Le nuove vene aperte dell’America Latina

America latina

«C’è chi crede che il destino stia nel grembo degli dei, ma la verità è che lavora, come una sfida incandescente, sulla coscienza degli uomini». Così scriveva Eduardo Galeano nel suo saggio Le vene aperte dell’America Latina, appellandosi ai «derubati, i dissanguati, gli umiliati, i maledetti», chiamati alla «ricostruzione dell’America Latina» dopo cinque secoli di sfruttamento e ingiustizie.

Terra ricca, uomini poveri

«Siamo poveri perché la terra su cui camminiamo è ricca»: questa la sintesi più autentica dei processi economici, politici e sociali che hanno investito la regione latinoamericana, spossessata delle sue preziose risorse dal Messico alla Terra del Fuoco. Oro, argento, zucchero, cotone. E ancora: cacao, petrolio, rame, ferro. Tesori depredati sistematicamente. Dai conquistadores alle multinazionali. Senza contare gli Stati Uniti, «destinati dalla Provvidenza a riempire di miseria l’America in nome della libertà», come profetizzato dal Libertador Simón Bolívar.

Stampato per la prima volta nel 1971, Le vene aperte dell’America Latina è diventato ben presto un’icona della letteratura e della sinistra latinoamericana, fungendo da vero e proprio simbolo di riscatto. Erano gli anni del Piano Condor – per eliminare gli oppositori e i militanti di sinistra in Sudamerica – e dei colpi di stato militari, di cui lo stesso Galeano, giornalista e scrittore uruguaiano, è stato vittima. Prima nel suo Paese, dove fu imprigionato e costretto a fuggire. Poi nell’Argentina di Videla, dalla quale fuggì una seconda volta, in Spagna. Dittature che proibirono la circolazione del suo libro, ritenuto fonte di “corruzione” per i giovani.

I giorni del Condor: finalmente giustizia?

Ma quali sono le nuove vene aperte dell’America Latina, 50 anni dopo? «Nell’essenza sono le stesse», risponde Aurora Meloni, che i crimini del Condor li ha vissuti sulla propria pelle. Italiana nata in Uruguay (il padre era originario del Parmense), lasciò il suo Paese poco prima del golpe militare di Bordaberry, trasferendosi a Buenos Aires, in Argentina, con le due figlie piccole e il marito Daniel Banfi, anche lui impegnato nel Movimento 26 marzo, vicino ai tupamaros.

La notte del 13 settembre 1974, alle tre, un gruppo di uomini armati in borghese fece irruzione nel suo appartamento, sequestrando il marito 23enne e altri due ragazzi. I loro corpi vennero ritrovati un mese dopo a 150 chilometri da Buenos Aires. Una rarità, rispetto al destino di migliaia di familiari che non hanno potuto nemmeno seppellire i propri cari: «Lavoro molto con le Madri di Plaza de Mayo per la memoria dei desaparecidos in Cile, Argentina e Uruguay».

Ma ricordare non basta. L’8 luglio 2019, anche grazie alla tenacia di Aurora Meloni e di altre quattro promotrici del processo Condor, 24 tra ex capi di stato, militari e vertici delle giunte militari e dei servizi segreti di Bolivia, Cile, Uruguay e Perù sono stati condannati all’ergastolo. Una sentenza storica, pronunciata dalla Corte d’assise d’appello di Roma perché le vittime avevano la cittadinanza italiana. In attesa del prossimo 24 giugno, quando sarà la Cassazione a chiudere definitivamente il Condor.

Un bicchiere con Galeano: in piazza le nuove vene

Grande amica di Galeano – morto nel 2015 – e della moglie Helena Villagra, Aurora Meloni ha splendidi ricordi dello scrittore uruguaiano. «Amava l’Italia e ti faceva sentire vicino anche se non eri nessuno», racconta. «L’ho conosciuto a Venezia nei primi anni ’80. Poi siamo diventati amici e ci siamo frequentati spesso a Montevideo, confrontandoci davanti a un bicchiere di vino».

Eduardo Galeano

Sull’attualità de Le vene – per i 50 anni dalla prima pubblicazione la casa editrice Siglo XXI ha in programma un’edizione speciale – Aurora Meloni non ha dubbi. «Siamo usciti dalla fase buia delle dittature degli anni ’70 ed entrati in una nuova fase democratica, ma le politiche neoliberiste imposte dal Fondo monetario internazionale non sono cambiate». «Speravamo si potesse cambiare – osserva con amarezza – invece siamo ancora lì a leccarci le ferite».

Quelle ferite, secondo Meloni, oggi si manifestano in Cile, esploso di rabbia dall’ottobre 2019 per le rivendicazioni economiche e sociali grazie alle quali è stata eliminata la Costituzione pinochetista attraverso un referendum. Così come in Perù, sceso in piazza dopo la destituzione di Martín Vizcarra per denunciare condizioni di vita insostenibili, aggravate dalla pandemia di coronavirus. Proteste che in precedenza hanno incendiato anche l’Ecuador, dopo il tradimento di Lenín Moreno, eletto presidente in continuità con Rafael Correa e convertitosi alle ricette della Scuola di Chicago.

Da Pinochet alla nuova Carta: il risveglio del Cile

Chi di Cile ne sa qualcosa è Rodrigo Andrea Rivas. Nel 1971 era un giovane dirigente della sinistra cilena, in un momento unico della storia del Paese sudamericano: l’esperienza di Salvador Allende e della “via cilena al socialismo”. Esiliato in Italia dal 1974 dopo il golpe di Augusto Pinochet, Rivas è stato economista, docente universitario e giornalista (ha diretto Radio Popolare). Proprio in Italia ha conosciuto Eduardo Galeano: «È stato un precursore, i problemi che ha sollevato restano attuali, oltre alla questione storica che continua a essere ignorata».

Il Cile di oggi, però, vive un momento di svolta: dall’estallido social provocato dai giovani dopo un piccolo aumento dei biglietti della metro (come testimonia la foto in evidenza, scattata nella capitale Santiago da Stefania Stipitivich) è nato un movimento variegato che ha travolto la Costituzione neoliberista del 1980 – scritta in piena dittatura e mai cambiata nella sostanza – con una valanga di Apruebo. «In Cile, con un PIL pro capite di poco inferiore all’Italia ma con pensioni e salari da fame, è tutto privato: dal mare alle miniere, dalla sanità all’istruzione. Un Paese ricco per poveri», spiega Rivas. «La questione centrale, infatti, continua a essere il modello economico che impedisce la costruzione anche solo di uno stato sociale decente. In Cile come in molti altri paesi dell’America Latina».

Cacerolazo a Santiago del Cile. Foto di Stefania Stipitivich

Donne, indigeni e ambiente: le nuove vene aperte

Tra le nuove vene aperte, spicca il ruolo delle donne, ancora in ombra rispetto agli uomini in buona parte della regione latinoamericana. Ma nonostante maschilismo e femminicidi non smettano di destare preoccupazione, le piazze rosa possono festeggiare qualche successo storico. «In Argentina il movimento femminista è riuscito a conquistare l’aborto senza bisogno dei partiti», spiega Rivas. «Questa è una novità sia rispetto a 50 anni fa sia rispetto ai canoni europei».

Un’altra ferita da rimarginare è la questione indigena. «Bisogna riconoscere la plurinazionalità dei Paesi latinoamericani: gli indigeni sono continuamente umiliati e spossessati delle loro terre, quando non massacrati», continua. Un esempio è il popolo mapuche che vive tra Cile e Argentina, balzato agli onori delle cronache per aver denunciato la privazione di un terreno – grande quanto le Marche –  da parte della famiglia Benetton.

Ma il vero nervo scoperto è l’ambiente. «Il tema è il modello estrattivista di saccheggio che consente, per esempio, a poche grandi famiglie di “affittare” il mare cileno», commenta Rivas. «Allo stesso modo, le vene aperte di oggi sono i grandi progetti di distruzione dell’Antartide, i pescherecci cinesi che saccheggiano il Pacifico o l’abbattimento di boschi e foreste dal Messico all’Uruguay, passando per l’Amazzonia». Ed è proprio nel Brasile di Jair Bolsonaro che la deforestazione ha toccato cifre record.

Colombia senza pace

Un Paese dove le cose non sembrano mai migliorare è la Colombia. Anzi. «Oggi è peggio di 50 anni fa. Massacri e saccheggi sono all’ordine del giorno. A detenere il potere, inoltre, sono direttamente i narcotrafficanti». Il giudizio netto viene da Maria Victoria Santoyo Abril, già docente universitaria, oggi attivista italo-colombiana impegnata nella difesa dei diritti umani con il Comité permanente por la defensa de los derechos humanos.

Bogotà dall’alto. Foto di Charly Boillot. Si ringrazia Angélica Cardozo

Dopo oltre 50 anni di guerra civile con le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia), nel 2016 sono stati siglati gli Accordi di pace. «Ma sono stati completamente traditi, tanto è vero che alcune frange di ex guerriglieri sono tornate a combattere», commenta Maria Victoria Santoyo. «C’è una guerra continua in Colombia, tra omicidi politici e massacri di indigeni, contadini e leader sociali nella totale impunità».

I numeri, in effetti, sono agghiaccianti. Otto milioni di sfollati interni, 200mila scomparsi in un Paese dove il 60% delle terre appartiene all’1% della popolazione. Tra fosse comuni e migrazioni forzate per mancanza d’acqua o veri e propri sfratti violenti a favore di agroindustria e allevamenti intensivi.

Sangue, soldi e cocaina: i fili del Matarife

A scorrere, però, ci sono fiumi di cocaina, controllata non solo dai narcos ma anche da paramilitari e politici. «Il primo narcotrafficante è l’ex presidente Álvaro Uribe, il “padrone” della Colombia», accusa l’attivista. Se l’attuale presidente della Colombia, infatti, risponde al nome di Iván Duque, il vero dominus del Paese sudamericano è considerato proprio Uribe, recentemente arrestato con le accuse di frode e corruzione e tornato libero dopo gli arresti domiciliari.

Sessantotto anni, avvocato dai toni pacati, Uribe è stato considerato sin da giovane un alleato del cartello di Medellin, quello di Pablo Escobar, di cui era amico personale. Tanto è vero che nei primi anni ’90 l’agenzia militare d’intelligence degli Stati Uniti (Dia) gli aveva affibbiato il numero 82 nella lista delle persone legate al narcotraffico colombiano. E la sua folgorante carriera politica, partita proprio da Medellin, è stata finanziata anche dal cartello di Escobar.

Non è un caso, infatti, che gli intrecci criminali di cui è accusato di tenere le redini siano stati immortalati in una web-serie di successo trasmessa su Telegram, Whatsapp e Youtube per eludere la censura dei media tradizionali, soprattutto dopo le minacce di morte recapitate agli autori anche dai piani alti delle istituzioni colombiane: Matarife, letteralmente “macellaio”, “squartatore”.

Orizzonti e utopie: il cammino dell’America Latina

Cinquant’anni dopo, salvo alcune parentesi fortunate, i «derubati, i dissanguati, gli umiliati, i maledetti» non hanno rovesciato i rapporti di forza sulla strada della «ricostruzione dell’America Latina», come auspicava Eduardo Galeano. Tra esodi di massa, povertà e disuguaglianze alle stelle, il destino di gran parte dei latinoamericani è ancora tutto da scrivere. Ma la strada resta quella tracciata da Galeano, che – siamo sicuri – ripeterebbe ancora una frase a lui spesso attribuita, ma che in realtà – come precisava Galeano stesso – era dell’argentino Fernando Birri, regista e amico dello scrittore uruguaiano. «L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi e si allontana due passi. Cammino dieci passi e si allontana dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare».