Meloni, La Russa & c.: ora basta. Verso il 25 aprile

L’ultima in ordine di tempo – ma ormai ne piovono ogni mezz’ora – è di Ignazio La Russa, incredibilmente presidente del Senato. E incredibilmente ancora al suo posto. Pochi giorni prima era stato il turno di Giorgia Meloni, incredibilmente presidente del Consiglio. Ma dovunque ci si giri è un continuo di azioni e dichiarazioni riabilitanti, più o meno surrettiziamente, il fascismo. Con annessa – salto di qualità ulteriore, indice della sfrontatezza raggiunta dall’attuale classe dirigente italiana – strisciante e graduale criminalizzazione dei partigiani. Con un messaggio implicito inequivocabile: in fondo non c’erano santi da nessuna parte, quindi tutti colpevoli uguale nessun colpevole.

Eh no, ora basta. Quanto tempo ancora si dovrà subire passivamente questa riscrittura falsa, tendenziosa e indegna della storia? Quanto tempo ancora dovrà passare affinché qualcosa rompa l’incantesimo e fermi per sempre questo rotolamento distopico verso l’annullamento dei principi su cui si fondano la repubblica democratica e la Costituzione? Se la seconda carica dello Stato è manifestamente indegna, la prima non ha nulla da dire?

La Russa, via Rasella e la banda di pensionati

Via Rasella fu una pagina tutt’altro che nobile della Resistenza, anche perché quelli che furono uccisi non erano biechi nazisti delle Ss ma una banda musicale di semi-pensionati“. Così l’ex missino per definizione “non antifascista” ha commentato, nel corso di un’intervista al podcast di Libero ‘Terraverso’, l’azione partigiana del 23 marzo 1944. Quel giorno, in via Rasella (a Roma), furono uccisi con un attacco dinamitardo da parte dei partigiani dei Gap (Gruppi d’azione patriottica) 33 soldati del reggimento ‘Bozen‘, battaglione sudtirolese subordinato alle Ss naziste (dentro cui confluì completamente venti giorni dopo). Un attentato contro poliziotti armati affiliati alle Ss, responsabili di azioni repressive che il Polizeiregiment Bozen continuò a svolgere anche successivamente. Tra loro il maggiore d’età aveva 43 anni. Altro che semi-pensionati. E altro che banda musicale.

Non contento della colossale menzogna, La Russa ha aggiunto, riferendosi all’azione dei gappisti: “…conoscendo benissimo il rischio di rappresaglia al quale esponevano i cittadini romani, antifascisti e non”. Il giorno dopo, infatti, i tedeschi risposero con l’esecuzione di 335 persone (antifascisti, partigiani, ebrei) alle Fosse Ardeatine. Un massacro che secondo il retropensiero conseguente alla rilettura larussiana fu responsabilità di quei cattivi dei partigiani, colpevoli per aver attaccato gli occupanti nazisti.

La parziale retromarcetta (copyright Il Manifesto) del giorno dopo è una toppa quasi peggiore del buco: fatti storici assodati e sigillati dalla Cassazione trasformati in dicerie da bar o balle fasciste. E senza remore diffuse al pubblico dalla seconda carica dello Stato. Da un adoratore del busto del Duce (la frase funzionerebbe benissimo anche senza le parole “busto del”) non pentito non ci si può aspettare molto, si dirà. Eppure c’è una bella differenza tra un giudizio estemporaneo sul fascismo e una riscrittura falsa di fatti storici, per giunta così delicati e dolorosi per il nostro Paese.

Meloni, Fosse Ardeatine e mito degli “italiani”

Proprio sulle Fosse Ardeatine era stata la presidente del Consiglio (pardon, “il” presidente, non vorremmo incorrere in sanzioni) Meloni a imboccare – si presume consapevolmente – la via dell’incidente, annoverando le 335 vittime della rappresaglia nazista come “uccise solo perché italiane”. Una scorrettezza abnorme: le vittime furono uccise in quanto antifascisti, partigiani ed ebrei, non in quanto italiani. Anche perché non tutti gli italiani erano ostili ai nazisti tedeschi. Anzi, erano proprio i fascisti italiani ad apparecchiar loro la tavola.

Un partito con la fiamma tricolore nel simbolo al governo è di per sè uno smacco alla storia della Resistenza e – verrebbe da aggiungere – alla bontà di tanti partigiani che, dopo aver lottato per liberarci, hanno deciso di abbassare le armi per costruire una repubblica democratica retta da una Costituzione plurale (ma pur sempre antifascista). Non passa giorno, però, in cui gli attuali governanti (grazie a una maggioranza relativa, non apriamo vasi di Pandora sulle cause e sul contesto politico italiano da decenni a questa parte), anziché dar corpo alle parole di chi li descrive in tono assolutorio come “ripuliti”, “moderni” e reduci dai giusti conti con la (propria) storia, fanno di tutto per dimostrare il contrario. Parole al vento, omissioni significative, gesti volutamente ambigui, se non del tutto chiari nel loro naturale ammiccamento al fascismo.

Provocazioni, scuse per sviare dai veri problemi etc., dicono in molti. Sarà. Ma mentre la memoria storica si affievolisce nel patrimonio comune popolare, tra difficoltà e pensieri ben più preoccupanti nel quotidiano, chi guida la baracca (ri)costruisce in modo raffazzonato un mitologico racconto collettivo fondato sul culto della “Nazione” e degli “Italiani”. Picconando qua e là pezzi di Resistenza, di Costituzione e di storia. Non sarà che si sia superato di gran lunga il limite? Perché la retorica dell’allarmismo antifascista che vede ritorni neri dappertutto, pur spesso infondata o quanto meno scollegata dalla realtà (altro argomento valido ma sino a un certo punto: i problemi economici e sociali permettono di rendere del tutto ininfluenti le bordate contro i principi antifascisti che sorreggono l’architettura costituzionale?), dovrà pur avere dei punti fermi oltre i quali non si può accettare di andare.

Verso il 25 aprile

Al di là delle naturali reazioni di sdegno, a partire da quella dell’Anpi, stupisce l’assuefazione verso notizie che in altri tempi avrebbero provocato autentici terremoti politici, se non vere e proprie manifestazioni di rabbia per le strade. Quasi come se ormai, un po’ anestetizzati dal baratro politico, culturale e ideologico in cui siamo piombati, un po’ sfiniti dalle contingenze personali, economiche e sociali, non riuscissimo più a reagire a nulla. D’accordo: i temi veri sono altri, i motivi per scendere in piazza altrettanto etc. Però nulla impedisce di riconnettere problemi reali e questioni valoriali, anche perché prima o poi il conto si presenta tutto insieme.

A proposito di ideologie, è passata in sordina la dichiarazione di Francesco Silvestri, capogruppo alla Camera del M5s, sull’uscita nefasta di La Russa: criticando le parole del presidente del Senato, il deputato Cinque Stelle ha parlato di “rigurgiti ideologici“. Come se il problema fossero le ideologie in generale e non il fascismo. Una sottigliezza che dice molto non tanto sullo stato delle opposizioni ma sul clima politico che da un pezzo ha preso piede nel nostro Paese (e non solo). D’altronde il mantra della fine delle ideologie nasconde l’evidenza per cui una di esse è rimasta in vita e impera incontrastata: quella del liberismo, dogma intoccabile anche dell’Unione Europea.

Fu proprio il Parlamento Ue, nel 2019, a equiparare dal punto di vista storico, con la risoluzione 2019/2819, nazismo e comunismo. Un abominevole revisionismo che dimostra quanto sia insufficiente puntare il dito solamente contro gli eredi del (post)fascismo. Basta constatare la benevolenza con cui, dal Pd in poi, anche il cosiddetto centrosinistra abbraccia la difesa dei nazisti di altri paesi, a partire dagli ucraini (Battaglione Azov, solo per fare un esempio, con tanto di interviste su Kant e dintorni), per rendersi conto di quanto sia ipocrita vedere nazifascisti a targhe alterne.

Che fare, dunque? Vasto programma. Bisognerebbe ripartire da quelle cause e da quel contesto di cui si parlava sopra, riguardo all’ascesa di Fratelli d’Italia e alleati. Ma un segno di vita si potrebbe (e si dovrebbe) dare anche ora. A cominciare dal 25 aprile, festa della Liberazione: è ora di dare una scossa a questo Paese.