Lenny Bottai: «Per recuperare le masse popolari serve una sinistra di classe»

«Serve uno strumento di classe per cambiare i rapporti di forza, ma prima ancora serve che le masse percepiscano questa necessità». A dirlo, intervistato da Ventuno, è Lenny Bottai. Fieramente livornese, classe 1977, Lenny Bottai è un ex pugile professionista. A Las Vegas, durante una semifinale mondiale, indossò una maglietta contro il Jobs Act. È stato, inoltre, un esponente di spicco, agli albori degli anni 2000, delle Brigate Autonome Livornesi, gruppo ultras noto per una forte caratterizzazione ideologica. Negli ultimi anni invece è stato segretario provinciale del Partito Comunista, che a Livorno, alle scorse Regionali – alle quali era candidato – ha ottenuto il 3,6%. Tre aspetti, passaggi di vita, che tuttavia – precisa – ama tenere separati. Oggi, oltre ad allenare i pugili della Spes Fortitude, uscito con tutta la federazione livornese dal Pc, è ripartito nella sua città con l’associazione Ilio “Dario” Barontini. Abbiamo scambiato due chiacchiere post-elettorali, tra vittoria della destra e smarrimento a sinistra. Con un chiodo fisso: connettersi alle masse popolari.

Lenny Bottai durante un incontro di pugilato
Lenny Bottai in versione allenatore di boxe
Con l’ex bomber (e attuale dirigente) del Livorno Igor Protti

Un commento sulle elezioni Politiche?

«Dopo anni nei quali la sinistra si è impegnata veramente tanto a fare la destra, siamo arrivati a consegnare il Paese a un partito come Fratelli d’Italia. A conferma della legge per la quale tra il fake e l’originale vince sempre il secondo. Sia chiaro, non che se avesse vinto il Pd sarebbe cambiato poi qualcosa…a ogni modo fa un certo senso vedere che il primo partito di una repubblica nata dalla Resistenza riporta nel suo stemma la fiamma tricolore. Anche se siamo pienamente coscienti che della cosiddetta struttura cambierà veramente poco. Forse avremo questa percezione dalla sovrastruttura».

Guardando a sinistra, cosa emerge?

«La totale disconnessione dai sentimenti delle masse subalterne – o popolari, come le vogliamo chiamare – dalla realtà politica odierna. Sarebbe interessante comprendere quante di queste siano più nella porzione che ha votato la destra, oppure la sinistra liberal – che se è vero che perde colpi tiene comunque una percentuale a doppia cifra – oppure ancora negli astenuti come effetto dello smarrimento di chi in cabina elettorale oggi non ha più riferimenti. È angosciante vedere che in un Paese nel quale le condizioni sono veramente mature, dal punto di vista economico e sociale, per la formazione di un polo unico di classe forte tanto da incidere realmente nella vita politica del Paese stesso non si riesca a concretizzare quantomeno un’opposizione che possa spaventare chi detiene il potere. Oggi l’unico voto da ritenersi di classe è quello per i 5 Stelle che hanno prevalso al Sud sicuramente per la questione del reddito di cittadinanza. Uno strumento deficitario sicuramente, sia chiaro, ma che senza un’alternativa concreta di ridistribuzione del lavoro è stupido e dannoso criticare».

In una tua recente analisi sui social hai affrontato la questione della sinistra di classe. Ecco: dov’è?

«Il punto oggi credo stia in questa domanda, necessaria e in buona parte dolorosa. Forse il problema è che non si sa dove sia la classe. Mi spiego meglio: probabilmente tutti i tentativi di rappresentare le istanze delle classi popolari non sembrano efficaci, magari per difetti di comunicazione, magari per motivi di linguaggio o forse di altra natura; rimane che il contrasto tra situazione economica e sociale del Paese e riscontro elettorale ci dice questo. Poi ognuno, come me, avrà le sue convinzioni».

Di Unione popolare cosa pensi?

«Sarò sincero, pur non ritenendo di certo Unione popolare un pericolo o un nemico (ci mancherebbe altro!) – ed è bene sottolinearlo perché ultimamente si sono persi tanto i riferimenti – ritengo tutta l’operazione deficitaria per vari motivi».

Quali?

«Innanzitutto si capisce chiaramente che alcuni elementi che ne fanno parte, come ad esempio Potere al popolo o Rifondazione comunista, fossero alla ricerca disperata di un mezzo, se non un motivo, per continuare a esistere. Hanno pensato quindi – erroneamente – che un personaggio come De Magistris potesse garantire ai loro organismi la svolta, tanto da concedergli il delirio, dopo anni di professata orizzontalità e anti-leaderismo, di mettere il suo nome sul simbolo (peraltro veramente brutto). Ma queste operazioni molto raramente funzionano, se non altro perché sono solamente accrocchi elettorali di chi si mette insieme per l’occasione oggi, ma poi insieme non ci starebbe mai domani, nonostante nei fatti poi magari siano pure sovrapponibili come linguaggi e temi usati. Credo inoltre che oramai queste persone, forse incoscientemente, si rivolgano più a un elettorato, per quanto ne dicano, medio borghese che ai subalterni».

Perché?

«Se pensano che scrivere con l’asterisco sia la priorità nelle borgate o che anteporre i diritti civili e la questione di genere ad ogni dinamica di classe sia spendibile, oppure ancora che per contrastare i fenomeni dei pregiudizi (spesso confusi col razzismo) scaturiti dall’immigrazione – che è chiaramente un fenomeno negativo creato dal capitale – serva una retorica da libro Cuore che non farà mai proseliti nei quartieri popolari, secondo me, difficilmente potranno rivolgersi a chi vive certe dinamiche. Caratterizzare tutta una lotta politica su questi temi è fallace, ci si rivolge ad una nicchia che cerca di identificarsi dietro linguaggi e simbologie che non spaventano affatto la sinistra liberal. Anzi, spesso vengono inglobati da essa, perché fondamentalmente sono interclasse. E come vale per Italia sovrana e popolare, tra il fake e l’originale vince sempre il secondo. E sia chiaro, non che certi temi non siano importanti, ma sono subordinati ad una visione di classe senza la quale diventano specchietti per le allodole».

A proposito di Italia Sovrana e Popolare, la lista ha raccolto solo poco più dell’1%. Te l’aspettavi?

«Sí. L’operazione è iniziata con il chiaro intento di tirare dentro anche Paragone, che è poi quello che avrebbe portato quella percentuale in più necessaria a passare lo sbarramento. Però questi ha pensato ad un certo punto di fare da sé, nonostante quella iniziativa dove annunciavano di “voler costruire un Ulivo sovranista con Rizzo”. Quindi era ovvio che i voti delle masse allo sbando, raggruppate con le varie questioni complottiste, se li sarebbero spartiti questi due e Adinolfi. Hanno provato a dare una spruzzata di politica di classe all’inclinazione no vax, gestendo con ambiguità spaventosa l’appoggio a Cuba, che ha vaccinato anche i bambini, oppure alla Cina, che – se il Green Pass è uno “strumento di controllo sociale” – non si può che definire altro che una “dittatura sanitaria” visto che mette in quarantena intere città per pochi infetti. Ma alla fine il tutto gli è scoppiato in mano. Così hanno distrutto un partito (il Partito comunista di Marco Rizzo, ndr) e ne sono usciti con un niente di fatto. Contenti loro…»

Ecco: dal Partito comunista, di cui eri segretario provinciale a Livorno, sei uscito senza mai davvero spiegarne i motivi sui media. Vuoi farlo ora?

«Semplicemente perché il progetto per come mi era stato presentato, e per come era quando sono entrato nel Pc, è completamente cambiato. Sia chiaro, non è che pensassi fosse perfetto, del resto niente e nessuno lo è, ma nel 2019 avevo avuto l’impressione che finalmente qualcosa di buono potesse fare. Poi la scissione col Fronte (della gioventù comunista, ndr), costato mesi di “comunismo di guerra” interno, al termine del quale io misi in chiaro al Segretario, e dissi esplicitamente anche al Comitato Centrale, che se non eravamo in grado di inaugurare una stagione nuova di dibattito interno, di crescita qualitativa e quantitativa, di lì a poco saremmo entrati in un vicolo cieco. Non serviva Nostradamus per capirlo. Ma la direzione, trasformatasi in una monarchia neppure costituzionale, è andata dritta. Et voilà, ecco il risultato».

Un partito personale, insomma.

«Mi limito a dire che ho/abbiamo (io e la mia federazione comunista Ilio Barontini) sollevato problemi di metodo, nella discussione a senso unico e nel meccanismo di cooptazione che viene spacciato per elezione, dimostrando che – come ho portato e letto – il centralismo democratico di Lenin e le tesi di Lione di Gramsci qualcuno o non li conosce o li applica al contrario esatto di come sono stati scritti. Evito di dilungarmi, è acqua passata, dico che se sono rimasto solo un anno e mezzo è perché ad un certo punto ho capito che – al di là delle questioni personali – il metodo era saltato. E di lì a poco sono uscite altre sezioni e militanti, tra i quali alcuni fedelissimi. Oggi, poi, chi ci ha accusato di metterci con i berlingueriani per aver fatto una piattaforma di unità d’azione col Pci locale (non il partito di Rizzo, ma il Partito comunista italiano, di cui è segretario Mauro Alboresi, ndr) si è trovato massoni, fascisti, ex leghisti, cattolici anti-abortisti e monsignor Viganò che li ha sponsorizzati. Non erano meglio i “berlingueriani”? Che poi questi di Livorno manco quello sono».

Lenny Bottai (al centro) e la Federazione comunista Ilio “Dario” Barontini

Tornando alla sinistra di classe, che prospettive vedi?

«Bella domanda. Penso che forse si arriverà a qualcosa solo quando tutti si renderanno conto che è una necessità primaria provare a trovare dei minimi comuni denominatori dai quali ripartire per contare qualcosa e spostare davvero i rapporti di forza. Altrimenti nessuno potrà fare niente di concreto e la logica del divide et impera vincerà sempre. Certo, vedo anch’io ostacoli ostici nel mettere insieme ambienti molto diversi, ma probabilmente il tutto è dovuto all’incapacità di dare delle priorità alla lotta politica nelle questioni primarie e non in quelle secondarie, che in molti ambienti mi pare abbiano preso il sopravvento (tipo l’asterisco al posto del plurale maschile…). O forse, in alternativa, qualcuno riuscirà veramente a stendere un progetto capace di accattivare le masse di cui parlavamo, che sono politicamente a zonzo e non in questi pezzetti litigiosi e minoritari. E magari potrà fare a meno di tutti gli altri. Senza uno di questi due scenari la vedo molto, molto dura. Rimane che senza la capacità di comunicare e accattivare le masse, di rinnovare il linguaggio e la forma, tenendo ben salde le radici, saremo condannati alla guerra della soglia di sbarramento, anche se, come detto più volte, la fase sociale, politica ed economica, è favorevole».

Concretamente cosa state provando a fare a Livorno? 

«Anzitutto noi abbiamo fatto una piattaforma di unità d’azione con il Pci locale, per dare un segnale a chi dice che i comunisti sono divisi e per dimostrare che per unirli non si parte dalle elezioni ma dalle iniziative da costruire insieme sui territori. Per il resto abbiamo fatto un’analisi: in Italia serve prima di tutto ricostruire, nella gente, la convinzione che serve uno strumento di classe per cambiare i rapporti di forza. Fino a che non sarà diffusa questa necessità, oltre alla imprescindibile coscienza di classe, è inutile pensare di creare lo strumento per diventare egemoni in quel risicato 3%, anche quando messo tutto insieme. Quindi lavoriamo per favorire questo tipo di percezione e necessità. Siamo una goccia nel mare, ovviamente, ma contribuiamo a quello che in pratica serve a tutti quelli che, come noi, ritengono necessario costruire l’egemonia gramsciana nel popolo».

Come?

«Iniziative, dal vivo e online, analisi per dare chiavi di lettura diverse da quelle “imposte” dal pensiero dominante e sostegno ai lavoratori quando sollevano delle istanze. E in generale alle persone quando rivendicano dei diritti che stanno venendo meno. Insomma, ci mettiamo in discussione. Io cerco nei limiti di usare i social, anche se dopo aver avuto una grande evoluzione vengo continuamente segnalato e bloccato. Nell’ultima segnalazione che mi intimava di fare attenzione perché avrei potuto perdere la pagina, mi si accusava addirittura – ovviamente senza mai precisare, perché è una follia – di sostenere idee e organizzazioni pericolose. Ho dovuto aprire un canale Telegram per bypassare la censura di Facebook. Mi era già successo quando pubblicai un’analisi sugli uiguri fatta tramite amici cinesi, che ripresero alcune testate (anche quella di partito). Si utilizzano gli spazi a disposizione per ampliare le riflessioni e le discussioni».