La normalità di “Pappo e Bucco” che racconta l’eutanasia

Pappo e Bucco

Sono passati esattamente 15 anni dalla morte di Piergiorgio Welby e viene da chiedersi quanto sia cambiata la situazione sul fine vite in Italia. Il caso di questi giorni è quello di un 43enne marchigiano, tetraplegico da 10 anni, che chiede di porre fine alle sue sofferenze. Il comitato etico dell’azienda sanitaria delle Marche ha dato il suo parere favorevole per l’accesso al suicidio assistito. Eppure, la stessa Asur non ha ancora effettuato la verifica su quale farmaco letale Mario dovrà assumere, nonostante l’ordine emesso dal tribunale di Ancona.

Oggi è comparsa su La Stampa una sua lettera, dove chiede di intervenire. Sono passati 16 mesi da quando ha fatto richiesta per il suicidio assistito, ed ora si sente “tradito dallo Stato”. Questa vicenda paradossale è l’ennesimo caso nel nostro Paese. La Costituzione, le sentenze, l’associazione Luca Coscioni: sono tutti attori che hanno contribuito a sciogliere questo nodo giuridico, che però non vuole essere sbrigliato dalla classe politica per non perdere il favore dell’elettorato cattolico e della Chiesa.

Per questo è stata necessaria una raccolta firme per un referendum. La Corte Costituzionale terrà il 15 febbraio l’udienza sulla sua ammissibilità del referendum, che abrogherebbe l’articolo 579 del Codice penale che oggi sanziona come reato l’«omicidio del consenziente», ovvero l’uccisione di chi ne fa richiesta. Sarebbe un grande passo avanti, ma intanto il tetraplegico marchigiano, che i giornali chiamano con lo pseudonimo di Mario, continuerebbe a soffrire. Quanto gli si può chiedere ancora di aspettare?

Dove non riesce ad arrivare la notizia per capire lo stato d’animo di una persona, può arrivare l’arte. Una storia può creare empatia con lo spettatore, che si immedesima nella vicenda. È il caso di Pappo e Bucco cortometraggio prodotto e diretto da Antonio Losito, con Massimo Dapporto e Augusto Zucchi, vincitore anche di un premio al Festival di Venezia. È la storia di due vecchi pagliacci, una coppia omosessuale che vive isolata in una casa di campagna. Bucco, il personaggio di Dapporto, è in fin di vita per una malattia non meglio precisata e chiede al compagno di sempre, Pappo, di porre fine alle sue sofferenze. Per saperne di più, Ventuno ha intervistato Antonio Losito.

Perché hai deciso di scrivere e realizzare Pappo e Bucco?

All’inizio non avevo scelto di parlare del tema dell’eutanasia. Da tempo desideravo raccontare la storia di un clown, è una figura che mi ha sempre appassionato e incuriosito. Volevo scrivere la storia di un clown che viveva solitario, ma non riuscivo a finirla. Avevo scritto solo le prime due o tre scene. Tempo dopo ho riletto quelle scene e mi è venuta l’ispirazione per continuare ed è arrivato così il secondo clown. Mi sono detto: e se fossero due? Ragionandoci ho pensato che uno dei due avesse problemi di salute, così sono arrivato a parlare di eutanasia, un argomento che mi è sempre stato a cuore. Ho sempre pensato che la gente debba essere messa nelle condizioni di scegliere come porre fine alla propria vita come meglio crede. Se uno sta male, se non ci sono speranze, se uno deve vivere su un letto d’ospedale per tutta la vita, se deve restare in coma tutta la vita, come Eluana Englaro, che rimase 17 anni in coma vegetativo… io credo che ognuno abbia il diritto di porre fine alla propria sofferenza. Chi siamo noi per ostinarci? Un tetraplegico ha la capacità di comunicare il suo desiderio di interrompere la sua vita. Nel caso invece dell’Englaro, il padre dopo 17 anni aveva il diritto di piangere sua figlia. Credo sia una forma di egoismo tenere in vita una persona alle proprie regole. Da lì ho iniziato a sviluppare l’argomento. Così ho pensato che solo una persona che amava l’altro lo avrebbe potuto aiutare. Credo sia un grandissimo gesto d’amore accettare di aiutare l’altra persona.

Quindi sei partito volendo raccontare la solitudine di un clown. Da lì hai voluto tramutare la solitudine non solo in sofferenza emotiva, ma anche fisica, la necessità di farla finita e quindi un altro soggetto che gli stesse a fianco…

Sì esatto. È un atto d’amore. Sono due clown che si amano, hanno passato la loro vita insieme. È una storia insolita ed è venuta un po’ per caso. Poi ho aspettato, perché quando scrivo qualcosa mi piace aspettare un mese per rileggere a mente fredda, come se fosse la storia di un altro.

Riguardo agli attori, perché hai scelto proprio Massimo Dapporto e Augusto Zucchi? Non sono ruoli insoliti per loro?

Avevo mandato la sceneggiatura ad Augusto Zucchi, con cui avevo già lavorato, e mi ha richiamato dopo due o tre giorni. Mi ha detto che la storia gli piaceva, ma che dipendeva molto anche da chi avrei scelto per l’altro. Il film si basa sui due personaggi, quindi se c’è grande complicità fra gli attori, può funzionare. Ho impiegato molto tempo per capire chi potesse essere la persona più credibile.

L’autore e regista, Antonio Losito

Non ti ha suggerito lui il nome di Dapporto?

No, è successo per caso. Ero andato a teatro per vedere Un borghese piccolo piccolo. Nel cast c’era un attore che conoscevo e il protagonista era proprio Dapporto. Guardandolo sul palco ho capito che sarebbe stato perfetto, ma ho pensato “o mi ride in faccia o mi chiede una cifra assurda”. Però ci ho provato, ho chiesto al mio amico la sua email e gli ho mandato la sceneggiatura domenica sera, sul tardi. Lunedì mattina, alle 9, mi ha telefonato. Mi ha riempito di complimenti, nonostante non lo conoscessi, non ci fossimo mai visti. Lui mi ha detto che tende a non recitare nei film o nei corti di cui gli mandano le sceneggiature, si definisce in pensione e dice di preferire il teatro. Mi ha detto: “Sono arrivato all’età in cui posso scegliere di fare solo quello che mi piace. La tua storia mi piace molto. Se riesci a girare il tutto entro il 20 novembre 2020, lo faccio”. Poi mi ha chiesto chi fosse l’altro attore e quando ha saputo che era Zucchi, ne è stato felicissimo. “Augusto! Abbiamo fatto il primo spettacolo assieme, negli anni ‘70!”.

Proprio come nel cortometraggio, quindi era perfetto

Sì, un congiungimento astrale! Poi siccome non mi aveva parlato subito di soldi, avevo capito che gli piaceva veramente! Ci siamo incontrati, ne abbiamo parlato ed è stato una grandissima persona, il progetto gli è piaciuto moltissimo e ci ha messo tanto del suo.

Oltre ai due protagonisti, c’è il terzo personaggio, il prete. È un ruolo particolare perché si capisce che il prete li conosca bene, sa che sono una coppia gay e che Bucco è malato. Qual è il suo significato? Incarna la morale religiosa che si confronta con l’eutanasia e contemporaneamente con le coppie di fatto?

La mia intenzione era di non dare un contesto temporale preciso. Potrebbe essere ambientato negli anni ‘70, ‘80, ‘90. Non c’è un elemento tecnologico preciso, né un cellulare né una televisione.

Quindi hai voluto fare in modo che fosse una storia senza tempo, valida sempre?

Esatto. Dai dialoghi, si capisce che dopo che i due hanno smesso di fare i clown, si sono ritirati in un paesino. Le chiacchiere della gente che vede una coppia di due uomini che convivono, i sorrisetti, li hanno fatti allontanare e scegliere la solitudine, l’isolamento della campagna. Tant’è vero che quando arriva il prete, lo si vede arrancare, è molto affannato dal viaggio in bicicletta. Lui ha un rapporto di amicizia con Pappo e Bucco e gli dice di tornare in paese, che da vicino può aiutarli. Loro però non vogliono. L’idea del sacerdote serve a sottolineare il rapporto della coppia, che è talmente consolidato, talmente vissuto con normalità, che diventa quasi secondario a chi potrebbe avere un pregiudizio. Anche se il pensiero della Chiesa va in una direzione, chi lo mette in pratica può andare da un’altra, non segue necessariamente il dogma, Per questo mi sono chiesto: perché mandare un semplice paesano? Perché non mandare un prete, così da sottolineare questa loro normalità?

C’è un dettaglio in sospeso nel finale: la pillola

Bucco chiede a Pappo di aiutarlo nell’eutanasia. Pappo sa che da quel momento la sua vita non sarà più la stessa, finirebbe anche per lui, quindi preferisce seguire Bucco, ma non glielo dice! Bucco non lo sa, perché se glielo avesse detto, non lo avrebbe mai permesso. Nel momento in cui prendono la pasticca, infatti, Dapporto si alza e va via, mentre Zucchi resta vicino alla confezione del farmaco. Mi piaceva l’idea di non rendere troppo didascalico questo gesto, doveva essere lasciato alla libera interpretazione di ognuno. Pappo si suicida pur non essendo malato, perché senza Bucco anche lui sarebbe morto, la sua assenza si sarebbe tramutata in malattia. Ha preferito chiudere questa vita con lui.

Parlando di Venezia, hai sempre avuto l’obiettivo di proporre il corto al Festival?

Sì, ho avuto la possibilità di poterlo presentare a Venezia a inizio settembre 2020, come anteprima nazionale, dove ho vinto il Premio “Intaste Excellence Award’s”. Poi avrei fatto una presentazione a Roma e il giro dei festival, purtroppo però è riscoppiata la pandemia, quindi ho fermato tutto. Da aprile ho ricominciato a inviarlo ai vari concorsi e il corto ha vinto il Premio “Città del Cortometraggio” – Social World Film Festival.

Perché hai deciso di auto-produrre il corto?

L’ho prodotto con Pasquale Cossu, ma non mi sono affidato ad altri perché non volevo ingerenze scomode. Mi è capitato di fare corti con altre produzioni, ma la loro gestazione è sempre dura, impiegano molto tempo e ti fanno passare la voglia. Siccome ci tenevo particolarmente, ho cercato in tutti i modi di produrlo in autonomia ed è stata la scelta giusta: per adesso i premi sono stati più di venti, come “Premio al miglior attore” ad Augusto Zucchi all’Amarcort Film Festival e la menzione d’onore come “Corto più felliniano dell’anno”. È arrivato un premio anche internazionale, “BEST ACTOR” ex aequo a Dapporto e Zucchi presso il Grand Off Festival, in Polonia.

E i prossimi progetti? C’è qualcosa in cantiere?

Sto lavorando per far sì che questo corto diventi un lungometraggio. Vorrei che Pappo e Bucco fosse più completo. Massimo Dapporto mi ha già dato la sua disponibilità. Quando questa storia aveva iniziato a prendere forma l’avevo pensata per un lungometraggio, poi ho dovuto ridurre il tutto, ma avrei tanto altro da dire.

La scena finale di Pappo e Bucco. A sinistra, Massimo Dapporto. A destra, Augusto Zucchi.