Memoria dalla Turchia – La Piccola Sofia

Il termometro segna 46 gradi quando usciamo. È mezzogiorno e il sole è così forte che a tratti diventa difficile respirare. È un caldo secco, direbbe qualcuno. Lo è anche un incendio, risponderei io. Eppure sì, sempre meglio che a Bologna.

Uno degli aspetti affascinanti di Gaziantep è che bastano pochi passi per passare da un volto all’altro della città. Dalla luccicante Ataturk bulvari, piena di negozi e insegne luminose, basta prendere la via sbagliata per trovarsi in un quartiere che sembra appartenere a tutt’altro paese. Dall’asfalto impeccabile al vecchio ciottolato è un attimo ed ecco che anche i muri sono consumati, la vernice scrostata, le saracinesche chiuse, le inferriate arrugginite. Anche le auto parcheggiate sembrano provenire da un’altra epoca, mentre l’odore pungente fa supporre che il rivolo a bordo della strada non sia acqua e che un mucchio di pattume sia rimasto accatastato qui per giorni, prima di essere rimosso.

La strada è un po’ in discesa e, all’angolo di un muro, tre cartelli con tanto di freccia segnalano la bottega di un barbiere, dietro ad un’altra saracinesca chiusa. Il titolare deve essere l’uomo seduto lì davanti su una sedia bassa, che ci guarda con un’aria sospettosa. Pochi metri più avanti, al di là di un incrocio, dove l’ombra svanisce fra la luce accecante, inaspettatamente il paesaggio cambia di nuovo.

Eccola. Davanti a noi fa capolino timidamente, nascosta dietro un muro perimetrale dai mattoni ocra. Devo rimettere gli occhiali da sole per vederla: Kurtuluş camii brilla sotto il sole accecante e col suo cancello aperto ci invita ad entrare. Mi avevano parlato più volte di questa moschea. Era nata come una chiesa armena e l’impronta della loro architettura è ben visibile nell’alternarsi delle pietre bianche e nere che si susseguono lungo i suoi contorni. Con il genocidio armeno, così come molte ville furono requisite ai legittimi proprietari ed occupate, anche questa chiesa, inizialmente intitolata alla Vergine, è stata sottratta al suo scopo e usata come prigione per più di cinquant’anni. Negli anni ’80 è stata poi convertita in una moschea e il campanile è stato trasformato in un minareto. Quando mi spiegano questa storia, penso che se è possibile trasformare un luogo di un culto in quello di un altro, allora le religioni non possono essere così diverse. È lo stesso che capitò ad Haghia Sofia ad Istanbul, che dopo quasi mille anni fu trasformata da chiesa ortodossa a moschea. Ed eccomi qui, dunque, sulla porta di una piccola Haghia Sofia.

Le guardie ci chiedono se siamo turisti e ci fanno entrare tutti e tre dalla porta già aperta. Quella con scritto bayan, per le donne, resta chiusa. Ci accolgono all’ingresso due bambini che porgono due teli alle ragazze, da indossare sopra agli abiti. Sfilo le scarpe prima di mettere i piedi sul tappeto e mentre le mie colleghe si coprono i capelli con le sciarpe, pare che i miei pantaloni corti non offendano nessuno.

Come muoviamo i primi passi, i due giovani custodi si lanciano in una lotta improvvisa: calci e pugni troppo deboli perché risuonino in quella sala vuota. Ridono ed io non li divido, non voglio rovinare loro il divertimento. Quando si fermano, il mio sguardo è libero di vagare per l’interno di quel luogo. Il focus non può che essere sul grande candelabro formato da tre piani circolari concentrici, che piove dal soffitto attraverso decine di corde dorate. Come il riflesso in uno stagno, sul tappeto verde che ricopre tutto il pavimento, il lampadario incontra un suo speculare, un arabesco floreale e colorato. Seguo con gli occhi le colonne grigie e in cima noto le decorazioni corinzie. Chissà se siano originali. Kurtuluş camii, in fondo, è stata costruita a fine ottocento. Ancora più in alto, spostando lo sguardo a sinistra, vedo nella cupola le finestre arcuate dipinte di blu, di giallo e di rosso, che spezzano con la sobrietà del soffitto. In un angolo c’è uno scaffale con i testi sacri, mentre in quello opposto i bambini ci osservano. Ci chiedono i nostri nomi e mi presento come Osman. Sorridono nel sentirlo. Uno si chiama Hamza, l’altro, purtroppo, non lo capisco. Le ragazze osservano le scritte in arabo sul bordo di uno dei candelabri, cercando di tradurle. Mi spiegano che mentre il Corano è ovviamente tradotto in ogni lingua, le preghiere devono essere recitate sempre e solo in arabo, qualunque sia la tua nazionalità e che tu capisca o meno la lingua. Scatto loro una foto, immortalandole con il velo sui capelli e lo sguardo assorto. Adoro quando l’ironia gioca in questi modi perché, quando controllo gli scatti, sembrano entrambe un dipinto della Madonna.