«Io, Lucio e quel cappuccino della pace alle 5 di mattina…»

Tanti possono dire di aver conosciuto Lucio Dalla. Tanti possono pure dire di essergli stati amici. Pochi, però, possono dire anche di averci lavorato insieme per decenni, di aver passato le vacanze ospiti a casa sua, alle Isole Tremiti o in Sicilia, di aver fatto tour in giro per l’Europa, stretti nella stessa macchina.

Chi sicuramente può dire tutto questo è Maurizio Biancani, tra i più importanti ingegneri del suono d’Italia. Bolognese, 68 anni, Biancani è tuttora una delle colonne della mitica Fonoprint, tempio della musica dove sono passati i più grandi della canzone italiana. E non solo. Da un esordiente Vasco Rossi a Fiorella Mannoia, da Zucchero a Francesco Guccini. Una lista interminabile, nella quale non poteva mancare il simbolo di Bologna, Lucio Dalla. Tra registrazioni, concerti e vita privata, Ventuno ha sentito il fonico Biancani per ricordare il grande cantautore bolognese (leggi, su Lucio Dalla, anche l’articolo di Giuseppe Gabrieli).

Biancani, sono passati nove anni da quel 1° marzo.

«Sì. E il 4 marzo sarebbe stato il suo compleanno. Per l’occasione uscirà una chicca che risale a 50 anni fa: un disco di pezzi assolutamente inediti di quando non era ancora Lucio Dalla, ma si divertiva a cantare nelle balere pezzi non suoi, tra blues e jazz. Come Summertime, per esempio».

Un bel regalo. Come sono stati ritrovati?

«Il suo gruppo di allora, il primissimo di Lucio, si chiamava Gli Idoli. Uno dei musicisti di quel periodo aveva conservato dei nastri di mezzo secolo fa. Negli studi Fonoprint  li abbiamo digitalizzati e abbiamo realizzato un disco, in accordo con la Sony e con la Fondazione Lucio Dalla. Uscirà il 12 marzo e si chiamerà ‘Geniale?’, come un album pubblicato nel 1991 ma con parecchi pezzi assolutamente inediti».

Reperti storici…

«Il batterista, per registrare l’orchestra, metteva un microfono appoggiato su una sedia davanti al palco… Un po’ alla garibaldina, ma la qualità è ottima!»

Gli studi Fonoprint a Bologna

Partiamo dalle origini. Quando ha conosciuto Lucio Dalla?

«L’ho conosciuto nel 1979. Noi di Fonoprint ci eravamo appena trasferiti dall’appartamento di via Schiavonia a via de’ Coltelli. Lucio venne a trovarci, incuriosito dal fatto che ci fosse uno studio di registrazione a Bologna. Mi chiese di occuparmi delle registrazioni e dei mixaggi del primo disco del suo gruppo, gli Stadio, che non si chiamavano ancora così».

Il nome Stadio fu scelto in omaggio al quotidiano sportivo bolognese.

«Nel 1981 andammo nella sede del Resto del Carlino chiedendo di poter usare quel nome. Il direttore, che era fan di Lucio, fu entusiasta e ci diede l’opportunità non solo di usare il nome ma anche il marchio».

Quindi l’esordio con Lucio Dalla fu il primo disco degli Stadio. E poi?

«Nel 1982 facemmo insieme un album di Ron (‘Guarda chi si vede’) e un secondo album degli Stadio. Poi mi chiese di farne uno da solo, ‘1983’. All’epoca io lavoravo anche live e iniziai a fare dei tour con lui. Andammo in giro per l’Europa. In quel periodo si esibiva in tanti teatri con gli Stadio».

Nel 1990 Dalla decise di entrare come socio in Fonoprint.

«E ci rimase fino alla morte. Con il suo appoggio economico e d’immagine ci permise di spostarci in via Bocca di lupo, dove siamo tuttora. Poi per un periodo lavorai molto più con Vasco Rossi, mantenendo sempre qualche collaborazione con Lucio. Fino al ’95, quando, dopo vari esperimenti, mi chiese di tornare a fare “una cosa bella come quelle di una volta”. Rimettendo insieme Giovanni Pezzoli e gli Stadio, Ricky Portera come chitarrista e Mauro Malavasi come produttore».

Cosa?

«Il disco ‘Canzoni’, che realizzammo con la voglia e l’entusiasmo di chi vuole tornare a lavorare insieme. Vendette quasi due milioni di copie (oggi, se va bene, se ne vendono 50mila, tanto per capirci). Comprendeva anche Canzone e Tu non mi basti mai. Parallelamente lo portammo anche in tour, quasi per un anno e mezzo su e giù per l’Italia».

Fin qui abbiamo parlato del vostro rapporto professionale. Ma voi siete stati anche amici, è così?

«Certo. All’inizio lo consideravo un intoccabile, perché nel ’79-‘80 era già un grandissimo. Un approccio diverso rispetto a quello con Vasco Rossi, che venne a suonare il campanello di Fonoprint proponendo un suo disco da illustre sconosciuto… Lucio era il più famoso in Italia, quando cominciai. Però lui voleva andare oltre la sfera professionale, diventando amico. Siamo stati insieme in vacanza alle Tremiti o in Sicilia, anche con la mia famiglia. E poi siamo sempre stati amici».

Chi c’era con voi?

«Roberto Costa al basso, Bruno Mariani o Ricky Portera alle chitarre, Beppe D’Onghia alle tastiere… Qualcuno ogni tanto variava ma eravamo molto uniti. Nell’ultimo periodo i tour sembravano riunioni di amici che andavano in giro a divertirsi. Lucio ci chiamava “la mia famiglia”, perché tanto lui non ce l’aveva. Lui era uno che voleva fare tutto insieme quando si partiva: dai viaggi in macchina agli alberghi e ai ristoranti. E persino i musei nei giorni liberi! Questo è sempre stato bellissimo. Sembrava che andassimo in vacanza».

Una bella squadra.

«Questa è la forza di Fonoprint. Mentre a Milano e Roma i rapporti si perdevano, a Bologna no. Ancora adesso, pandemia a parte, con tutti gli artisti con cui abbiamo lavorato si è instaurato un rapporto di amicizia per cui ogni volta che passano per Bologna vengono a trovarci. Con Lucio questa cosa era espansa al massimo, anche perché era socio di Fonoprint, quindi era proprio di casa».

L’ultimo tour, purtroppo, fu quello di Montreux, in Svizzera. Dove Dalla morì.

«Ci avevamo investito un sacco di tempo ed energie. Lucio non andava in giro per l’Europa da parecchi anni e questa cosa un po’ gli pesava. Quel tour comprendeva le maggiori città europee ed era partito con grande spinta. Doveva finire in bellezza, con tutte le date già esaurite, all’Olympia a Parigi. Purtroppo si interruppe tragicamente alla terza data, dopo un bellissimo concerto».

Com’era Lucio Dalla?

«Lucio non è mai stato un personaggio facile, nonostante volesse sempre far partecipare i collaboratori a tutto. Il suo carattere è sempre stato particolare. Era un assolutista, bisognava fare come diceva lui. E si arrivava facilmente allo scontro perché aveva un carattere forte».

Un carattere scontroso.

«Io ho sempre avuto ottimi rapporti con tutti, con lui invece qualche volta mi sono scontrato. Lui cercava di metterti alla prova, attaccandoti dal nulla. Lo faceva per evitare che i collaboratori si adagiassero sugli allori, per far sì che tirassero fuori sempre il massimo».

Ricorda qualche episodio particolare?

«Dopo un tour Dalla-De Gregori con tante serate – non ‘Banana Republic’, più tardi, nel 2010-2011 – decidemmo di fare un disco live, cosa che comportava un lavoro titanico. Non so quante settimane ci ho messo! Dopo tanto lavoro trovammo la quadra. Nei pezzi solo piano e voce si doveva esprimere il massimo: Francesco scelse La donna cannone e Lucio Caruso. Quando mancava solo un pezzo da inserire, che era proprio Caruso, iniziò una diatriba tra me e Lucio».

Perché?

«A me piaceva una serata e a Lucio un’altra. Mi seccava dargli ragione, perché secondo me lui aveva scelto proprio la serata peggiore! Dopo un po’ di malumori, però, mi diede ragione. O almeno così sembrò».

E invece?

«Arrivò negli studi alle due di notte. Io stavo lavorando da due giorni. Dopo aver ascoltato, fece una faccia strana e mi disse: “Mi fa schifo come è venuto, come ho cantato e come l’hai mixato”. Io, memore di altre volte, non mi arrabbiai. Gli chiesi perché, spiegando che non mi sembrava così. Allora mi offese, dicendomi che ultimamente non usavo le orecchie. Terribile per un fonico. Voleva ferirmi».

E poi cosa successe?

«Feci finta di niente e gli dissi che avrei modificato il lavoro durante la notte. Lui andava sempre a letto alla mattina, infatti alle 5.30 tornò e io avevo finito. Ma in realtà avevo cambiato veramente pochissimo! Si presentò con cappuccini, paste e giornali. Le profferte della pace… Ascoltammo insieme la nuova versione e mi disse: “Ma è una meraviglia! Lo hai completamente trasformato! Ora dev’essere il pezzo più importante del disco”. Ci abbracciammo facendo un brindisi col cappuccino».

Stupendo.

«La sua era una specie di sceneggiata per arrivare a questo. Pure lui sapeva che non avevo cambiato quasi nulla! Ma era così, non teneva il broncio e non voleva compromettere i rapporti ai quali teneva».

Pensa che Dalla avrebbe potuto dare ancora molto alla musica?

«Sì, perché aveva una creatività notevolissima. Inoltre si stava impegnando molto per Bologna, che ha risentito tantissimo della sua perdita: è venuto a mancare il personaggio faro, che veniva ascoltato dalle istituzioni, dagli imprenditori etc. Sono rimasti tutti gli altri importanti, che sono cresciuti sotto la sua ala protettrice: Carboni, Bersani, lo stesso Morandi… Lucio, più andava avanti con l’età, più aveva voglia di mettersi in gioco per portare Bologna a un livello sempre più alto».

Com’era la Bologna di Lucio?

«Io considero la Bologna degli anni ’80 la più bella Bologna che abbia mai visto. Non è nostalgia dei tempi andati: c’erano tantissimi artisti, si suonava dappertutto, c’era fermento. L’industria musicale funzionava tantissimo e anche la città era vivace. Bologna in quel periodo era una città da vivere di notte: fino agli inizi degli anni ’90 andavamo a letto tutti i giorni alle 4 o alle 5 e le ragazze giravano tranquillamente da sole senza alcuna paura».

Il mondo della musica è stato rivoluzionato. Come fa Fonoprint a resistere?

«Ora naturalmente siamo un po’ bloccati dalla pandemia ma abbiamo ragazzi che stanno portando grandi novità. Stiamo cercando di svecchiare il panorama degli artisti con cui lavoriamo. Continuano a esserci i top, tipo Zucchero, Morandi, Carboni, Bersani. Però vogliamo che Fonoprint non sia solo uno studio per i grandi ma che torni punto di aggregazione per i giovani che non riescono ad avvicinarsi per i costi elevati».

Cosa fate?

«Facciamo iniziative audio-video, live, montaggi, pubblicità… Abbiamo svecchiato anche il parco fonici. Nonostante tutto, quindi, c’è un’espansione. Io mi dedico molto ai corsi professionali e faccio masterizzazioni, per la maggiore. Ma vedo un ritorno di interesse, anche nei rapporti con il Comune di Bologna e con la Regione Emilia-Romagna, per Fonoprint, di cui Leopoldo Cavalli è il proprietario. Paola Cevenini si occupa di corsi, del museo e della parte istituzionale, mentre Giacomo Golfieri è l’amministratore unico. Spero che ci sia una rinascita, finito questo momento di difficoltà. E penso che Fonoprint possa contribuire in modo importante».