Movimenti giovanili e droga, la storia ignorata troppo a lungo

Festival del Proletariato Giovanile, 1976 (fonte Wikipedia, Museo Fotografia Contemporanea)

Sanpa, il documentario Netflix che ha raccontato la storia della comunità di recupero San Patrignano, ha mostrato un lato della nostra storia più recente che raramente viene studiato. Ventuno ha parlato con Andrea Baravelli, professore di storia contemporanea dell’Università di Ferrara, per capire il perché.

Una pagina tralasciata

Il successo di Sanpa deriva probabilmente dal fatto che la sua storia sia stata messa da parte e dimenticata dopo la morte del suo fondatore, Vincenzo Muccioli. Con essa, anche il tema della tossicodipendenza ha perso rilevanza nel dibattito pubblico. Ma perché la storia si occupa poco della droga? Secondo il professor Baravelli, dal punto di vista storiografico ci possono essere più ragioni. La prima è che la storiografia in Italia, fino agli anni ’90, è stata dominata dalla storia dei partiti e delle culture politiche. Gli altri temi erano spesso marginali. Riguardo a quegli anni, gli studiosi italiani pensano a Moro, il compromesso storico, Berlinguer, le stragi, quindi la droga ha avuto una nicchia piccolissima. Dopo gli anni ’90, però, c’è stata una maggiore attenzione alle culture giovanili e negli ultimi tempi si è data più attenzione ai fenomeni sociali come quello della tossicodipendenza.

Il secondo punto da considerare è che gli anni’80, il momento in cui si giunge alla percezione sociale del pericolo dell’eroina, sono poco storicizzati. Questo sia per il tempo necessario all’apertura degli archivi, sia perché gli storici hanno la fobia di stare troppo vicini agli avvenimenti di cui parlano, non vogliono che la loro percezione influisca sugli studi. «Una mia dottoranda ha 26 anni e si occupa di questo tema – spiega Baravelli – Lei ha la distanza necessaria per farlo, io ricordo ancora le siringhe in piazza San Francesco a Ravenna».

Eroina, causa o conseguenza?

Sanpa parte dal contesto storico, quando negli anni ’70 i movimenti giovanili si stavano sfaldando e arrivò l’ondata di eroina. Il documentario, attraverso le testimonianze degli intervistati, interpreta il fenomeno come una conseguenza della loro caduta, ossia il rifugio psicologico che i giovani trovavano una volta spente le loro speranze sul futuro e sui cambiamenti. C’è però un’altra interpretazione, che vede l’eroina come causa principale del crollo dei gruppi extraparlamentari: è la cosiddetta operazione Bluemoon, pianificata dalla Cia.

«Sono due visioni errate – dice Baravelli – Quello delle droghe come esaltazione del disimpegno, della fine dell’impegno politico, è un luogo comune. Ci sono chiaramente degli appigli, si possono trovare tante storie personali, tanti ex militanti che si buttano sulla droga, ma non è vero che l’impegno politico finisce negli anni ’80. La storiografia degli ultimi anni sta mettendo in evidenza che l’impegno prende altre forme, diverse da quelle partitiche e dei movimenti: da Alexander Langer al movimento ecologista, le esperienze radicali e quelle all’interno del mondo cattolico. La narrazione della fine della politica e dell’era dell’edonismo è molto forzata, non è la cifra che dà conto di un fenomeno di massa. C’è una generazione di giovani e meno giovani che non abbandona l’impegno politico, lo trasforma». 

La seconda interpretazione sfocia invece nel complottismo. Che le droghe abbiano posto fine ai movimenti per volere degli Usa è una leggenda metropolitana. Si basa sugli esperimenti da parte della Cia sugli effetti delle sostanze stupefacenti (soprattutto Lsd) per scopi militari e di spionaggio, come il progetto MK-ULTRA. Ci sono riferimenti, prove del fatto che fossero ipotizzati interventi simili, «ma quando si parla della Cia è più la mitologia che ciò che viene prodotto. È vera un’altra cosa: i movimenti e la stagione della politica erano già in fortissima crisi a metà degli anni ‘70, come dimostra la partecipazione alle elezioni del ‘76 da parte di Democrazia proletaria, un gesto che snatura il movimento, e nello stesso anno si scioglie Lotta Continua. Si tratta dell’ultima grande fiammata violenta, di rabbia generazionale. C’è poco coordinamento politico. È lontanissima dal ’68 e dalla sua progettualità».

Insomma, non c’era bisogno della droga e di un piano della Cia per sgominare i movimenti. Gli Stati Uniti non avevano paura di loro, ma del Pci e del compromesso storico con la Democrazia Cristiana, che avrebbe messo in dubbio il posizionamento dell’Italia nello scacchiere internazionale. Non avevano bisogno di infiltrarsi in quei gruppi, che erano tra l’altro nemici del Pci, che quindi paradossalmente facevano il gioco della politica americana e di rafforzamento della Dc.

«I giovani del ‘77 non votano Pci, quello è il nemico. Uno dei teatri principali del ‘77 è Bologna, e il principale nemico è il sindaco Renato Zangheri, esponente del Partito Comunista – ricorda Baravelli. Nell’ottica dell’estrema sinistra il nemico peggiore non è il democristiano, ma il comunista imborghesito.  Ci sono diversi gruppi extraparlamentari, come Potere Operaio, Autonomia, Prima Linea, che non hanno niente a che fare con le Brigate Rosse, che invece erano marxisti-leninisti e vedevano la Dc come il caposaldo del capitalismo, ma sono violenti e attaccano la sinistra imborghesita del Pci».

Beat Generation

Il guizzo finale del ’77 fu il fallimento del ’68 e dell’ideologia della beat generation, la cultura degli hippie, che in Italia ebbe espressioni come il Festival del Proletariato Giovanile, organizzato dalla rivista Il Re Nudo, dove dal ’71 al ’76 si esibirono grandi artisti come Guccini, Dalla, Area, Premiata Forneria Marconi. In quella cultura giovanile c’è per la prima volta la valutazione positiva dell’uso degli stupefacenti. Marijuana e all’hashish erano usate anche prima, ma non erano visibili, non c’era l’ostentazione, che portò all’approvazione della legge del 1975.

Le leggi contro la droga

La prima legge sulle droghe in Italia è del 1926, all’interno del Testo Unico di pubblica sicurezza che viene assorbito dal codice Rocco. È una legge repressiva, dove si obbliga il medico che ha in cura un tossico a denunciarlo. Successivamente, la legge del ‘54 mantiene l’obbligo per i medici di denunciare, non fa nessuna distinzione fra spaccio e consumo, quindi ogni tossicodipendente è considerato spacciatore, non prevede differenze fra droghe leggere o pesanti. Si evita il carcere se ci si dichiara tossicodipendenti, ma si finisce nell’ospedale psichiatrico. «Ma negli anni ’60 iniziano ad avere problemi, perché in precedenza c’erano pochi drogati, all’epoca l’Italia era un paese di passaggio, non di consumo, perché la droga dalla Turchia passava in Italia, andava a Marsiglia per la raffinazione, poi tornava in Italia per i porti e veniva imbarcata verso gli Stati Uniti.  Dagli anni ’60 anche l’Italia diventa anche un paese consumatore, quindi non si poteva affrontare il fenomeno unicamente con un approccio repressivo. Dal ’68 al ’74 c’è un periodo di riformismo, che porta nel ’75 a una nuova legge di apertura promossa da radicali e cattolici», spiega Baravelli.

Per la prima volta impone un approccio socio sanitario al tema e la legge prevede assistenza e riabilitazione. La droga viene definita una malattia sociale e il drogato non è più un criminale, è una persona debole che va aiutata. Si afferma l’idea della modica quantità e il tossico ha una serie di diritti in quanto malato: se accede alle strutture per il percorso di risanamento può mantenere l’anonimato, può scegliere il proprio medico.  Ma l’apertura non dipende solo dal periodo storico. Come spiega il professore, questa legge nasce nel  momento in cui si afferma il decentramento regionale, la cura del malato viene demandata alle strutture locali. «Questo è il passaggio importante: non è vero che c’era soltanto Muccioli. Ci sono tante strutture alternative riconosciute, oltre a San Patrignano. La legge prevede strutture private e regionali, anche con approcci diversi, psicologici. Alcune funzionano male, quelle dove danno solo il metadone, altre funzionano meglio, supportano il malato».

Si arriva così all’epilogo della vicenda, quando negli anni ’80 il numero dei tossici continua a salire e i movimenti svaniscono, lasciando il posto ad altre forme di politica. È il periodo in cui la fama di San Patrignano cresce sempre più, sia per le presenze televisive del suo fondatore, Muccioli, sia per i grandi finanziamenti che riceve, sia perché continua ad attirare sempre più persone. Ma il suo non era l’unico metodo e non prevedeva nessun tipo di sostegno psicologico.

«Ci si può chiedere perché Muccioli diventi famosissimo – conclude il professore – Ci sono i Moratti di mezzo, l’Italia impaurita sceglie un approccio paternalista come quello di San Patrignano, fatto di divieti e costrizioni anche fisiche, che si inserisce nella mentalità tradizionalista. Contemporaneamente, i media preferiscono quelle situazioni che premiano la logica del chiaro e scuro perché mediatica e Muccioli diventa fondamentale, al punto che il suo modello è alla base della legge Iervolino – Vassallo del ’90».