Cile, 10 settembre 1973, ore 21: la notte prima dell’inizio del crimine

Nel bel salotto del palazzo di governo prende la parola il compagno Presidente. Sarà un monologo che cerco di riprodurre con la maggiore fedeltà possibile, pur sapendo che le forme potrebbero essere state leggermente diverse.

Il discorso di Allende

“Cari compagni. Vi ringrazio di essere presenti.

Come vi ho anticipato al telefono, questa convocazione si è resa indispensabile per comunicarvi le mie decisioni.

Spero che riusciate a farle conoscere stasera stessa ai compagni dirigenti delle vostre organizzazioni.

Perciò, ho pregato i compagni segretari e responsabili di partito di portare i loro responsabili territoriali a Santiago. Ecco perché siamo una trentina di persone.

Vi prego di perdonarmi ma vi anticipo che in modo del tutto straordinario queste decisioni non sono in discussione stasera.

Dunque, tutti sappiamo che ormai siamo alla stretta finale.

Malgrado tutti i nostri sforzi, la situazione è arrivata ad un punto in cui s’impone una svolta. Così com’è, non POSSIAMO continuare a sostenerla a lungo.

Dopo l’adesione della DC al voto proposto dalla destra che, di fatto, delegittima il governo, procediamo dritti verso una guerra civile o verso un golpe. Comunque, verso un epilogo violento che porterà alla morte molti nostri concittadini.

So che tra di noi ci sono sfumature diverse riguardo il giudizio su ciò che va fatto ma, proprio perché nessun politico serio può risparmiarsi nulla per evitarlo, perché mi avete eletto come vostra guida e perché disponiamo di pochissimo tempo, intendo evitare ora questa discussione che, certamente, dovremo fare presto.

Lungo questi 1.000 giorni di governo popolare abbiamo esplorato tutte le alternative a nostra portata. Come bilancio, possiamo dire che ad oggi, 10 settembre 1973, contiamo su un popolo leale ma disarmato e che davanti abbiamo un nemico con molteplici teste – l’oligarchia, l’imperialismo, parte importante dei militari – che cerca di unificarsi dietro un’unica guida.

Tutti noi sappiamo pure che, aldilà dei proclami, nessun popolo può combattere contro un esercito compatto.

TOCCA, QUINDI, TROVARE SUBITO UNA VIA D’USCITA POLITICA CHE EVITI CHE LE FORZE ARMATE SI COMPATTINO CONTRO IL GOVERNO POPOLARE.

E’ URGENTE FARLO ABCHE PERCHE’ BEN SAPPIAMO CHE LE CANNONATE DI MILIONI DI DOLLARI SONO MOLTO CONVINCENTI.

E, IN QUESTI GIORNI, QUESTE CANNONATE CONTINUANO A MOLTIPLICARSI.

Le mie decisioni sono le seguenti:

Domani, 11 settembre, ho già indetto una catena nazionale di radio e televisione.

Comunicherò al Paese che, tra 2 settimane, si realizzerà un plebiscito con una sola domanda:
VOLETE CHE IL GOVERNO CONTINUI O CHE SI DIMETTA?

Posso anticiparvi che anch’io penso che perderemo il plebiscito.

QUINDI, LA STESSA SERA PRESENTERO’ LE MIE DIMISSIONI AL PARLAMENTO

La mia previsione è che quantomeno ripeteremo il risultato delle ultime elezioni parlamentari (marzo 1973), e cioè possiamo prendere il 46% circa dei voti.

Ricorderete che sono stato eletto col 36% dei voti.

E che quel 10% in più è maturato dopo che che ci avevano fatto di tutto: mercato nero, scioperi selvaggi, assedio medioevale delle città, assassinati dei nostri quadri e dei nostri alleati nelle forze armate, sollevazione di reggimenti…

Ma non sono riusciti a trasformare le nostre difficoltà in bancarotta.

Contro vento e marea, l’appoggio al governo popolare è cresciuto e cresce.

Ecco perché l’ipotesi golpe avanza prepotentemente. Non riescono a mandarci a casa solo con i complotti.

Se le mie previsioni sono giuste, saremo sconfitti ma ce ne andremo come la maggiore forza politica della sinistra, e non solo, in America Latina.

Ce ne andremo avendo rispettato tutti i nostri impegni nella lettera e nello spirito.

Poi, bisognerà definire chi ci rappresenterà alle prossime elezioni presidenziali.

VOI SAPETE CHE IO NON SONO UN UOMO PER TUTTE LE STAGIONI.

NON E’ UN PROBLEMA.
TRA DI NOI C’E’ TUTTO CIO’ DI CUI ABBIAMO BISOGNO, QUINDI ANCHE LE PERSONE GIUSTE PER OGNI RICAMBIO.

Ecco, quindi, le mie decisioni.

Presumo che sia tutto chiaro.

Ora, però, vi prego: dovete tornare alle vostre sedi.

Anzitutto perché i nostri compagni non devono essere presi alla sprovvista domani ma, anche, perché i miei assistenti mi hanno appena comunicato che è appena arrivato il mio amico, il generale Pinochet, che ho convocato per comunicargli quanto vi ho appena riferito.

Ci rivedremo domani, per organizzare il lavoro per il plebiscito, per valutare le prime risposte arrivate e per decidere come proseguire”.

La Moneda, il palazzo presidenziale, sotto le bombe
Il ricordo di Rodrigo Andrea Rivas

Alle 22,00 della sera di quel 10 settembre ero riunito con la mia segretaria regionale, alla quale ho comunicato le decisioni del compagno presidente, pregando tutti di farle conoscere alla maggior parte dei compagni prima della comunicazione presidenziale.

Quindi, ne abbiamo organizzato la diffusione con i mezzi allora esistenti.

Dal punto di vista politico, non eravamo particolarmente convinti delle decisioni, pur ben sapendo quanto fosse urgente trovare una soluzione e quanto fossero deboli sia le nostre organizzazioni che l’insieme della nostra gente.

Poi, con un misto d’incazzatura e sollievo, me ne sono andato a dormire a casa, cosa che non potevo fare da giorni.

Il mattino di un giorno agitato

Verso le 7 del mattino mia moglie e io ci siamo svegliati. Non so dire se per le cannonate o per il rumore che arrivava dalla strada.

Abbiamo acceso immediatamente la radio. Ormai, erano in poche a trasmettere cose diverse dai primi “bandi militari” e tutti i nostri sistemi di comunicazione, proprio attraverso le radio, erano saltati.

Seguendo quanto era stato concordato prima, abbiamo bruciato un po’ di documenti e tutte le agende, ci siamo vestiti per bene, abbiamo ascoltato l’ultimo discorso del compagno presidente e abbiamo abbandonato la casa. Non l’ho mai più vista.

Abitavamo nella zona sudovest di Santiago. Avanzando verso il centro, ci hanno fermato le pattuglie militari attorno alla Stazione centrale, a circa 5-6 chilometri dal palazzo di governo e ad altrettanti dalla sede in cui dovevo trovare i membri della mia segreteria.

Ho salutato mia moglie – ci siamo rivisti dopo un paio di settimane – e sono riuscito ad arrivare alla nostra sede dove ci sono stato fino a mezzogiorno circa, soprattutto per rispondere alle disperate richieste dei miei compagni di base.

Il resto della mia direzione, impossibilitata ad arrivare, si era riunita in un’altra sede.

Quindi, in tarda mattinata ho visto bombardare la Moneda.

A mezzogiorno, la giunta comunicò che alle ore 14,00 sarebbe entrato in vigore il coprifuoco “fino a nuovo ordine” (durerà una settimana e, in versione più ridotta, 5-6 anni).

Per mia fortuna, è passata dalla sede una compagna che mi ha portato a casa sua.

Ci sono rimasto un paio di giorni.

Nel pomeriggio abbiamo saputo della morte di Allende.

Poi, anche per non mettere troppo in pericolo una famiglia della quale mi sento ancora debitore, me ne sono andato.

Iniziava così, “ufficialmente”, la mia vita da clandestino. Sarebbe durata fino all’ingresso nell’ambasciata italiana, che segna invece l’inizio della mia vita da esule.

Per qualche mese, il problema da risolvere quotidianamente era quello di trovare un posto per dormire.

Conclusione

Chiunque sostenga che il golpe era inevitabile perché Allende intendeva avvitarsi alla sedia presidenziale, mente sapendo di mentire.

Poche settimane fa, la CNN, e cioè la principale catena d’informazione televisiva statunitense, ha mandato in onda un video dell’ultimo ministro degli esteri di Allende, Orlando Letelier, ucciso a Washington da 2 agenti della CIA, in cui si  racconta la stessa storia con una differenza: Letelier parla delle comunicazioni che Allende fece ai suoi ministri di maggiore fiducia.

E la Radio televisione francese (RTF1) ha rimandato in onda una intervista con Allende, realizzata il 9 settembre 1973 in cui, a domanda diretta, il presidente rispose: “Nessun politico responsabile può escludere alcuna possibilità per evitare spargimenti di sangue. Quindi sì, sono disposto a dimettermi se sarà necessario”.

50 anni dopo le discussioni politiche sulle decisioni prese dal compagno presidente sono sempre aperte, pur se il tono e l’oggetto del contendere sono cambiati.

Ma soltanto gente che nulla ha a che fare con la democrazia può mettere in discussione l’integrità morale del compagno presidente o sostenere che “siamo tutti ugualmente responsabili della tragedia”.

Per quest’ultima affermazione ci vuole una dose di cinismo o d’ignoranza particolare, e una profonda mancanza di rispetto per sé stessi.

Per quanto mi riguarda, 50 anni dopo, continuo a riconoscere in Salvador Allende il mio primo e unico presidente, pur sapendo che il titolo è andato – legittimamente – anche ad altri politici cileni.

Di questioni politiche mi sono occupato in questi 50 anni e, presumo, continuerò a farlo finché le mie candele non si spengano.

Ma oggi è il giorno di Allende e le ampie strade ancora devono essere definitivamente aperte.

Tuttavia, ne sono convinto, sono certo che “la storia è nostra e la fanno i popoli”.

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