La musica della speranza

“Ombre che solo io vedo,

mi scortano i miei due nonni.

Don Federico mi grida

e Taita Facundo tace;

i due nella notte sognano

e vanno, vanno.

Io li unisco.

– Federico!

Facundo! I due si abbracciano.

I due sospirano. I due

le forti teste alzano;

i due di stessa mole,

sotto le alte stelle;

i due di stessa mole,

ansia nera e ansia bianca,

i due di stessa mole,

gridano, sognano, piangono, cantano.

Sognano, piangono, cantano.

Piangono, cantano.

Cantano!”

da: Ballata dei due nonni,

Nicolás Guillén.

(da West Indies, Ltd., 1934)

Traduzione di Gordiano Lupi.

Ricordo diafana la voce di mio nonno, come i suoi occhi celesti che ci ha lasciato in famiglia qualche europeo avventuriero. Da bambino mi raccontò l’oscuro giorno in cui gli hanno tolto la speranza, un nove aprile 1948: i sogni di molti sono finiti assieme alla vita di Jorge Eliécer Gaitán, il candidato del popolo. Quel giorno il nonno uscì per strada ad ascoltare le arringhe degli oratori infuriati e senza sapere come si trovò in mezzo alla sparatoria. Per tante ore si coprì con i corpi morti per scappare dalle pallottole dei cecchini dell’esercito, finche il riparo della notte gli permise di tornare a casa tra le ombre. Mio nonno, a sua volta, aveva sentito da suo padre storie di morte quando, nella Guerra de los Mil días, questo aveva lottato nel partito liberale. Alla fine aveva ottenuto un pezzo di terra, frutto della lottizzazione/suddivisione dei possedimenti dei latifondisti, che potevano attraversare intere regioni. Ciononostante, la speranza di una riforma agraria, di un vero cambiamento, è morta come le migliaia di soldati senza nome di entrambi i fronti, sotterrati sotto le foreste e il fango.

Anche la generazione dei miei genitori soffrì con il sangue delle speranze perse, quando negli anni Novanta si spensero le vite dei candidati presidenziali Jaime Pardo Leal, Bernardo Jaramillo Ossa, Carlos Pizarro e Luis Carlos Galán. Con il loro assassinio andarono in fumo i sogni di poter avere un giorno un presidente, non per forza di sinistra, quello forse sarebbe stato chiedere troppo, ma almeno qualcuno che non rappresentasse quell’élite di pochi che da secoli controlla i fili del potere, la proprietà della terra e la ricchezza con leggi proprie e con la violenza. Molti uomini e donne di grande valore di quella generazione persero la vita o furono forzati all’esilio, lottando per la speranza di vedere un cambiamento nello status quo che perdurava fin dai tempi coloniali.

La mia generazione è cresciuta per anni senza speranza nella guerra frontale alla guerriglia e al narcotraffico. Non ci fu un possibile candidato che rappresentasse il cambiamento, inoltre era salito al potere un tiranno che si perpetuava con marionette al suo servizio e comandava un esercito che assassinava giovani innocenti per ottenere buoni vacanza e denari insanguinati. Inoltre, in quegli anni, ci hanno tolto la speranza che rappresenta il sorriso di un popolo, quando hanno ucciso l’umorista Jaime Garzón nel 1999. Fu allora che decisi di andarmene dalla Colombia, ormai più di vent’anni fa. Come me, molti giovani della mia generazione hanno scelto la via dell’esodo e, dalla distanza della diaspora, abbiamo coltivato la speranza di tornare in un paese diverso.

Come Nicolás Guillén, mi scortano le ombre dei mei due nonni. L’altro non aveva gli occhi celesti di conquistador e veniva dalla campagna, aveva il viso moro da contadino dell’altopiano, ed è sempre stato conservatore perché nel suo paesino lo erano tutti. Probabilmente non avrebbe votato Petro in queste elezioni. La mia grande famiglia, come quella di ogni colombiano, ha gente di destra e di sinistra, ho cugini di occhi chiari, scuri, a mandorla, zie di pelle bianca, mora, e nera, nonni rivoluzionari e altri dell’esercito, fratelli sindacalisti e impresari, studenti e poliziotti, indigeni e afrocolombiani, cugine innamorate dell’altro e dello stesso sesso. Siamo tutti una famiglia, e ogni tanto ci sediamo a mangiare insieme. Con l’amore di famiglia dimentichiamo le differenze degli altri, siamo indulgenti con coloro che la pensano diversamente, come dev’essere in una famiglia. Il futuro ci dice che se vogliamo la pace per davvero, dobbiamo fare la stessa cosa con ogni fratello e sorella colombiana.

La guerra interminabile, i pregiudizi e la violenza, hanno portato troppe generazioni a odiare le fazioni diverse soltanto per il fatto che rappresentano un partito politico o degli ideali differenti, senza volere mai sapere qualcosa dell’altro fronte. Generazioni intere si sono uccise senza conoscere le ragioni degli altri, ignorandole. Padri, madri, figli e figlie, fratelli e sorelle, nonni e avi hanno gridato evviva il centralismo o il federalismo, il partito liberale o conservatore, la destra o la sinistra, soltanto per eredità di famiglia, senza mettere in discussione, senza fiatare, ubbidienti al padre, alla tradizione dei nonni. Quante volte abbiamo dimenticato che due nonni così diversi, tante volte con idee diverse, ci scortano come ombre (e quanto possono pesare quelle ombre!).

Oggi, se fossero qui, i miei due nonni, come me ora, si abbraccerebbero, sognerebbero, piangerebbero, canterebbero…

Oggi sono tornato da terre lontane per vedere il seme di una speranza: la possibilità di un paese nuovo, visto dalla generazione della mia sorella più giovane, che quest’anno ha potuto votare per la prima volta ed è riuscita a scegliere qualcuno che la rappresenta. La nuova generazione è uscita per strada l’anno scorso, ha rischiato il proprio corpo nella prima e nella seconda linea, ha difeso i propri diritti al ritmo della musica che cantava il cambiamento. Questa generazione non crescerà con una speranza rubata.

Sono tornato a casa per vedere il delirio collettivo che attraversa un paese che non aveva mai visto un cambiamento così da quando è stato dichiarato una nazione. Mai i corridoi marmorei dei palazzi del governo, costruiti per perpetuare i commando dell’élite, si sono sognati di vedere un giovane rivoluzionario al comando, scortato da una donna afro discendente di origini umili. Molti dei dinosauri fossilizzati nelle loro poltrone non lo possono ancora credere, ma anche in Colombia finalmente è arrivato il cambiamento.

Sono realista, non dimentico le grida dei graffiti della mia città inzuppata dalla pioggia. Un Acheronte nero, gonfio dall’inverno, divide in due il viale 30, sulle rive del corso ucciso dal cemento si leggono enormi graffiti che chiedono giustizia per i leader sociali assassinati, teschi macabri ricordano che la guerra non è finita, nonostante sia stata firmata la pace.

“Cosa sarebbe stato di noi, popolo sorridente, senza la musica, senza un romantico motore per vivere, senza un romantico motore per andare avanti?” così cantò il cantore  Roberto Camargo nel concerto che festeggiò la consegna della relazione finale de La Comisión de la Verdad. Quella Verità scritta in maiuscola come la Violenza scritta in maiuscola che scrisse José Eustasio Rivera nella frase iniziale della sua opera del 1924 La Vorágine, quasi un secolo fa, quando già ci inseguivano i fantasmi della Violenza. Dalle ottocento pagine della relazione finale spuntano altri presagi funesti, come quelli dei graffiti fantasmagorici sulle rive dell’Acheronte della capitale, ma c’è anche della speranza perché la commissione ha finito la sua relazione nonostante i suoi detrattori. Adesso può iniziare la giustizia e con essa il risarcimento e il perdono. Decadi di dolore e rancore devono venire processate da un popolo che ha tanto sofferto. Ciononostante, so che presto capiremo che siamo una grande famiglia con zii, cugine, nonni e sorelle molto diversi da noi, ma tutti possiamo sederci a mangiare la domenica, alla fine di una lunga settimana nella quale è stato creato un mondo nuovo, c’è stata una tempesta, crisi, pianto e guerra, ma alla fine si potrà brindare alla pace e alla speranza di ciò che verrà. Il cambiamento è già iniziato.

La gente continua a festeggiare la vittoria di Petro e di Francia nelle strade e nelle case, e non posso evitare di contagiarmi con quest’allegria. Ora sì che posso pensare di tornare a casa dopo vent’anni; ora vorrei mettere dei figli al mondo con la Musica, la musica della speranza.

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