Salari, nel 2022 un treno da non perdere

Riceviamo e pubblichiamo questo intervento di Marco Veruggio, coordinatore di “Salario Minimo anche in Italia”

Un grande assente

C’è un tema incredibilmente assente dall’attuale dibattito politico e sindacale a sinistra. Riguarda le opportunità che la pandemia e la congiuntura economica in questo momento offrono ai lavoratori. Gli USA, come spesso capita, ci forniscono un’anticipazione di ciò che avverrà anche in Europa. A ottobre nel mercato del lavoro americano c’erano 11 milioni di posizioni vacanti contro 8,4 milioni di disoccupati. Una situazione in parte dovuta anche alla Great Resignation, le dimissioni di massa dai lavori più faticosi e peggio retribuiti, che stanno diventando una spina nel fianco del capitalismo a stelle e strisce.

Un articolo pubblicato proprio a ottobre sul sito della Rand Corporation attribuiva questo fenomeno alla “crisi di significanza” attraversata da milioni di lavoratori americani, disinnamorati della propria occupazione e spinti dalla pandemia a “riesaminare le priorità della propria vita e a perseguire con più zelo un difficile equilibrio tra lavoro e vita privata, anche se ciò significa ridimensionare i propri consumi” (Rand261021). È un modo un po’ accademico per dire che in realtà dietro l’attuale carenza di manodopera non c’è solo un fattore congiunturale, la ripresa economica più rapida del previsto che ha messo sotto pressione la logistica globale e un capitalismo fondato sulla produzione agile e sul just-in-time.

Come faceva notare a dicembre Kim Moody in un articolo sulla crisi delle catene di fornitura globali pubblicato a dicembre su LaborNotes negli USA è almeno dal 2018 che si registra scarsa offerta di autisti di camion e la ragione va ricercata nelle condizioni di lavoro, nei bassi salari, nello stress e nei problemi di salute legati a quel tipo di lavoro (LaborNotes061221). Un fenomeno analogo a quello che ha investito la ristorazione e, infatti, è stato proprio in questi settori, tra i fattorini UPS e i magazzinieri Amazon, così come nei fast-food o nei negozi Starbucks, che sono emerse mobilitazioni tra le più vivaci e interessanti degli ultimi anni.

Si tratta di un’onda che sta investendo anche l’Europa. Una recente indagine AIDP su un campione di 600 aziende italiane segnala un boom di dimissioni anche nel nostro paese, in particolare tra i giovani e tra gli impiegati nel nord Italia. Per il 59% del campione il tasso di dimissioni è stato superiore del 15% rispetto agli anni precedenti, per il 32% delle aziende addirittura del 30%. Ad andarsene sono soprattutto i dipendenti con meno anzianità aziendale (1-5 anni), distribuiti in modo abbastanza uniforme tra i diversi settori aziendali: un terzo dai servizi informatici, un terzo dalla produzione e, infine, un terzo dal settore marketing e commerciale.

Anche qui più della sociologia vale un’osservazione concreta: se la differenza di trattamento e di salario tra un lavoro migliore (e magari più strategico per il sistema economico) e uno peggiore, ma magari meno usurante, diminuisce spingendosi al di sotto di una soglia di emergenza, il lavoratore può scegliere il lavoro che lo impegna di meno o magari una combinazione tra un sussidio (disoccupazione o reddito di cittadinanza) e un lavoro in nero.

Questa situazione dà oggettivamente più potere contrattuale ai lavoratori e al sindacato, gettando le basi per una stagione di rivendicazioni salariali e normative più ambiziose. Non è una chimera da nostalgici degli anni Settanta: lo dicono i centri studi internazionali, sottolineando anche come questa situazione, più che un effetto del covid, rappresenti la ripresa di un trend già in atto nel biennio 2018-2019 e interrotto dalla pandemia.

Negli Usa

Commentando l’ondata di scioperi in atto negli USA a ottobre, lo Striketober, l’Economist annotava: “le aziende stanno prendendo atto della realtà: devono offrire salari più alti per attrarre i lavoratori e tenerseli. Amazon ha aumentato ai lavoratori dei magazzini il suo salario orario medio di ingresso a 18 dollari (dai 17 che pagava all’inizio dell’anno), ben al di sopra dei 15 dollari che gli attivisti reclamavano come salario minimo. Walmart, McDonald’s e CVS, una catena di farmacie, sono alcune tra le numerose altre aziende che stanno aumentando gli stipendi, contribuendo ad alimentare il più consistente aumento salariale degli ultimi anni nel settore operaio.” (Economist211021).

In Europa

Sulla sponda opposta dell’Atlantico giovedì scorso un’indagine di Income Data Research su un campione di 57 aumenti salariali erogati a mezzo milione di lavoratori britannici, in particolare nel settore privato, ne deduceva che nel 2022 gli aumenti salariali si stanno attestando intorno al 3%, contro il 2% del 2021 e che meno aziende applicano politiche di congelamento dei salari, un trend legato sia alla scarsità di manodopera che all’ondata di inflazione in atto (Reuters030222).

Mentre venerdì scorso, ING Think, centro studi di ING Bank, pubblicava un’analisi in cui si allarga il ragionamento all’Eurozona pronosticando aumenti medi del 3-3,5% nel 2022 e attribuendoli non solo alla carenza di manodopera e all’inflazione, ma anche alla crescita dei profitti e dei salari minimi nei paesi europei. Anche questo rapporto sottolinea come ciò dia più forza alle rivendicazioni sindacali (Think.Ing040222).

Il salario minimo, un tabù

Come scrive ancora Moody: “Per quanta automazione o tracciamento digitale ci siano lungo le catene logistiche ogni punto in cui si produce e si movimentano merci o si forniscono servizi è basato sui lavoratori”. In Italia, a differenza che negli USA, mi pare che la sinistra e il sindacato non diano particolari segnali di voler sfruttare una situazione potenzialmente favorevole facendo leva su questa centralità del lavoro. Gli ultimi rinnovi contrattuali hanno portato ad aumenti ben al di sotto del 3% (nel settore strategico della logistica gli scatti previsti dall’ultimo rinnovo tra 2021 e 2022 saranno del 2,3%) e alcuni di quei rinnovi ancora non si riescono a chiudere (si pensi alla sanità pubblica e alla vigilanza privata). Infine il salario minimo resta un tabù. Dopo lo sciopero del 16 dicembre sulla questione del lavoro sembra essere calato il sipario. Forse sarebbe il caso di alzarlo e riaccendere i riflettori. Altrimenti una congiuntura internazionale gravida di opportunità rischia di passarci davanti al naso non solo senza essere sfruttata, ma addirittura senza che neanche ce ne accorgiamo.