Un anno senza Diego

La prima volta che ho sentito il suo nome mi pare avessi cinque anni. Stavo giocando in cucina. «Papà, cos’è Maratona?». «Cristiano, la maratona è una disciplina di atletica, le persone corrono tanti chilometri e vince chi arriva per primo. La Maratona è anche la curva dei tifosi del Torino. Maradona invece è il più grande giocatore del mondo e sta per arrivare qui», rispose mio padre.

Da allora Diego è stato il baricentro della mia infanzia. Tutto è ruotato attorno a lui.

Di notte, prima di addormentarmi, le preghierine, un Padre nostro, due Ave Maria, un Eterno riposo e infine l’immancabile «Dio, ti prego, voglio essere come lui. E se non proprio come lui almeno fammelo incontrare. Mi accontento anche di essere come Ciro Ferrara».

A scuola era l’argomento esclusivo di conversazione: «Maradona è meglie ‘e Pelé, c’amm fatt ‘o mazz tant pe ll’avè», cantavamo. Ed era il nostro mantra, ci sentivamo ragazzini invincibili perché Maradona era nostro, del Napoli, era dalla nostra parte.

Cimelio prezioso

Era un supereroe e se per un colpo di fortuna ti capitava nel mazzo la sua figurina Panini era come vincere alla lotteria. E d’un tratto diventavi intoccabile, un privilegiato: gli altri ti guardavano con riverenza. In molti sostenevano di possedere quell’invidiabile cimelio ma nessuno aveva il coraggio di mostrarlo, per la paura che il guappo (oggi bullo) della classe potesse sottrarcelo con la forza.

Nessuno ha mai visto quella figurina, forse non è mai esistita. O forse sì. E oggi un’intera schiera di quarantenni ha ancora nascosto, in qualche cassetto, il reperto prezioso di un tempo.

Un altarino speciale, quello di Cristiano Regina e di tanti altri napoletani
Maradona ovunque

Il Dio del calcio abitava ovunque. Nei quartieri di periferia e nei campetti scalcinati, nelle pizzerie, nei bar e nei discorsi dei più grandi. Maradona ha insegnato a un’intera generazione a sognare che qualsiasi cosa sarebbe stata possibile, anche nelle estreme periferie, lontano dallo stadio San Paolo. Anche a Pianura, il mio quartiere: nessun cinema, scuola, teatro, centro di aggregazione o palestra. Casermoni abusivi e migliaia di ragazzini che di notte a letto, prima di addormentarsi, rivolgevano l’ultima preghiera a lui.

Maradona era la certezza che la nostra vita sarebbe stata migliore, che l’impossibile era possibile, che se lui poteva scartare tutti, fare goal da calcio d’angolo e da posizioni impensabili in qualsiasi momento e poteva segnare di mano senza essere visto, allora tutti i nostri sogni si sarebbero potuti avverare.

Preghiera avverata

Maradona si allenava a Soccavo, un giorno ero poco distante, al mercatino del rione Traiano a fare la spesa con la zia AnnaSirene della polizia e decine di motorini che scortavano l’autobus del Napoli, diretto allo stadio San Paolo. Il mercato si svuotò e tutti si riversarono in strada, un fiume in piena di colori ed emozioni avvolse l’autobus che rimase bloccato per mezz’ora. Solo quando Diego si alzò come un santo portato in processione e salutò, la marea umana si disperse e consentì il passaggio.

Non ricordo da bambino un’emozione così paralizzante: la preghiera si era avverata, la conferma che con lui tutto sarebbe stato possibile.

La prima volta

Maradona ci ha educato alla bellezza, noi che di bellezza attorno ne avevamo davvero poca. La prima volta allo stadio, stagione 1984/85, io, mio padre e mio nonno. Tre generazioni, lo scontro titanico tra Maradona e Platini. Avevo 7 anni. Ricordo solo la giornata piovosa e gli ombrelli, quasi nulla del campo e della partita. E il nonno Carmine che mi regala la mia prima sciarpa: «Accussì t’arricuord e sta iurnat».

Grazie di tutto Diego, chi ama non dimentica.