Chi sono i millennials? Guida in dieci frasi alla generazione dell’ascolto

Ora è il turno dei millennials (generazione Y). Sono loro che verranno chiamati a ricostruire il paese nel post-Covid. Comprende i nati tra il 1981 e il 1995. Una generazione storicamente sfortunata, che ha affrontato negli anni più importanti per la costruzione della propria carriera e della propria vita le crisi peggiori degli ultimi settant’anni. Strangolata prima dall’austerity e poi dalla pandemia.

La “generazione Erasmus”, come la chiamavano superficialmente i renziani, che negli ultimi due anni è stata espropriata pure dell’unico ultimo privilegio di cui godeva, la possibilità e la libertà di varcare i confini nazionali. Persone a cui da bambini era stato promesso un mondo più ricco e pacificato, sull’onda degli anni Novanta, della rivoluzione informatica, dell’integrazione europea e che invece oggi eredita un Paese da rifare.

Generazione bistrattata rispetto alle più fortunate precedenti e alla generazione successiva, quella tanto elogiata di Greta Thunberg e dei giovanissimi ambientalisti. Eppure anche i Millennials non sono stati testimoni passivi della storia. Dall’Onda universitaria, alle manifestazioni sui tetti del 2010, dal movimento viola al “Se non ora, quando?”, dal Referendum del 2011 agli indignados, fino alla mobilitazione nel Referendum costituzionale del 2016 o nelle piazze anti-Salvini nel 2019.

L’era dei Millennials

Spesso i media però hanno sottolineato individualismo, mancanza di passioni e fallimenti, anche sportivi, dei “ragazzi del millennio”. Una generazione senza talento, cresciuta davanti alla Play Station. Ragazzi che non erano stati neanche in grado di qualificarsi ai Mondiali nel 2018, dicevano. Eppure con la guida giusta le cose sono andate diversamente. Malgrado i giornali puntino l’occhio sui campioni nati alla fine degli anni Novanta, i millennials sono stati grandi protagonisti dell’Europeo nel 2021 (leggi anche l’articolo sulla vittoria a Wembley). Senza citare Daniele De Rossi (classe 1983), già giovanissimo rigorista nel 2006 per la Coppa del Mondo.

Ora è arrivato il loro turno. Adesso che i baby boomer stanno andando in pensione. Sono loro che finalmente devono portare novità e dinamismo in un Paese rimasto fermo per decenni. La generazione cresciuta con le immagini, ma finita per diventare amante dell’ascolto e dei podcast. La generazione che ha inventato un nuovo modo di ironizzare sulla realtà e fare satira, attraverso il culto dei meme (le immagini di film, serie e avvenimenti famosi riproposte con frasi diverse). Il popolo che ha premiato la rivoluzione della Tv on demand.

Come sarà il mondo costruito dai millennials? Per capirlo dobbiamo cercare quelle frasi che hanno segnato il patrimonio comune di una generazione educata all’ascolto. Una generazione che ha assorbito come una spugna i tanti stimoli provenienti da una società ricca di rumori di fondo. In un mondo che urlava dalle tv sempre accese, dai telefoni sempre connessi, dalle cuffie ad alto volume.

1. L’ironia, I Simpson, “Oddio alieni spaziali! Non mi mangiate! Ho moglie e figli! Mangiate loro!”, 1998
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Avremmo potuto citare il catechismo laico della Disney, nell’era d’oro del rinascimento del colosso americano. Sì, ma sarebbe stato fuorviante. I classici pieni di buoni sentimenti d’Oltre-atlantico hanno formato tutte le generazioni repubblicane ai loro valori e alle loro ipocrisie. Mentre i cartoni animati giapponesi a volte perfino violenti e osé hanno avuto certamente un impatto maggiore sui millennials.

Più di tutti però sono i Simpson, e i tanti prodotti ispirati alla famiglia inventata da Matt Groening, ad aver “educato” i giovanissimi degli anni Novanta. Li hanno educati al politicamente scorretto, all’ironia, alla satira sociale, al ribaltamento, a disvelare narrazioni ipocrite, a comprendere i mali più atavici della nostra società. Dall’inquinamento al razzismo, dall’ignoranza all’egoismo, fino allo strapotere dei media, della tv, della pubblicità i temi trattati erano sempre di grande importanza. Un potente strumento di disillusione. Un esercizio di pensiero critico iniettato tutti i giorni dopo pranzo su Italia 1 nelle vene di una generazione di bambini.

Tante le battute iconiche che avremmo potuto citare, dai tormentoni a quelle che hanno colpito Presidenti, celebrità di Hollywood, gli Usa o altri paesi del mondo. Abbiamo però scelto questa (episodio “La paura fa Novanta VII”, primo dell’ottava stagione, trasmesso in Italia nel 1998) perché rappresenta bene gli scopi originari della satira di Groening e della sua capacità decostruzionista. Rivelare le contraddizioni della società americana a partire dalla sua unità più sacra, la famiglia, al centro della narrazione conservatrice Usa degli anni ’80. Casa Simpson è rappresentata come una realtà in declino attraverso in particolare la figura di Homer: padre ignorante, violento, alcolista e egoista.

Leggi anche l’intervista a Fabrizio Mazzotta

2. La scelta, Harry Potter e la pietra filosofale, “Non Serpeverde”, 2001
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I libri di J.K. Rowling e i film sul mago più famoso del mondo hanno reso Harry Potter e il suo universo il patrimonio comune della generazione dei millennials. Ha pervaso di Fantasy l’infanzia e l’adolescenza di milioni di italiani. Poiché in questo articolo assume interesse non ciò che è stato letto, ma le frasi che sono state ascoltate, preferiamo concentrarci sulla trasposizione cinematografica del 2001.

La scena è tra le più iconiche della storia del cinema, sul giovane mago è calato il cappello parlante che deve decidere in quale casa di Hogwarts (la prestigiosa scuola di magia inglese) collocare Harry Potter. Il maghetto però ripete “Non Serpeverde” (la casa dei maghi malvagi), il cappello lo ascolta e lo accontenta. L’immagine sarà usata per vari meme nel corso della storia, come nelle elezioni del 2013, quando (di fronte ai risultati incerti) in molti ricondivisero la scena scrivendo “Non Berlusconi”.

Quello che però la sequenza insegna è che tutti hanno una scelta e dovrebbero optare per il bene. Una convinzione radicata nei millennials anche se la scienza ci dice che viviamo in un universo fisico predeterminato dove non c’è spazio per il libero arbitrio. Questa convinzione ha lati positivi, ma anche negativi, minimizzare per esempio in nome della possibilità di scelta, i condizionamenti sociali, famigliari e politici da cui derivano le azioni umane. Se tutti hanno davvero una reale libertà di scelta, è possibile perdonare gli errori?

3. Il cosmopolitismo, Caparezza, “Io vengo dalla Luna”, 2004

Michele Salvemini, in arte Caparezza, è stato forse il cantautore più amato dai millennials italiani. Sicuramente il più originale artista musicale degli ultimi vent’anni. Impossibile incasellare il genio di Molfetta (Bari) in un preciso genere. Caparezza travalica, inventa, rivoluziona. Intellettuale progressista ironico, provocatore, fuori da ogni schema, come davvero pochi ce ne sono stati negli ultimi decenni.

Legato alla sua terra che porta perfino nel nome d’arte (testa riccia in dialetto) è stato capace di insegnare ai giovani a travalicare i confini, i pregiudizi, prendendosi gioco dei rigurgiti razzisti, del localismo leghista. Amare davvero “Malinconia” (l’Italia) o la Puglia del turismo di massa vuol dire per il Capa denunciarne le debolezze e le ipocrisie, usare la musica contro le ingiustizie, i potenti. Insegnare la tolleranza verso il diverso, prendersi gioco di sfruttatori, sciovinisti, xenofobi.

Così nasce uno dei tormentoni più edificanti della storia della musica. “Io vengo dalla luna”. Ritornello orecchiabile, semplice, facilmente memorizzabile, ritmo irresistibile. Una canzone non certo ipocrita o buonista, anzi provocatoria, a volte volgare, sfacciata. Un testo che ha insegnato a superare i limes mentali, più che fisici che ci separano dagli altri nell’era della globalizzazione. D’altronde tutti i teenager sedici anni fa ripetevano queste strofe facili, facili come quelle di una filastrocca: “Io non sono nero/ Io non sono bianco/ Io non sono attivo/ Io non sono stanco/ Io, non provengo da nazione alcuna/ Io, sì, io vengo dalla luna”.

4. Il visionario, Steve Jobs, “Siate affamati, siate folli”, 2005
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Ogni epoca ha i suoi artisti. I suoi visionari. Negli ultimi decenni e per le nuove generazioni questo è stato sicuramente Steve Jobs (foto accanto). La gioventù negli anni Duemila si è letteralmente innamorata della narrazione Apple della realtà. Con i suoi prodotti, I-pod, I-pad, I-phone ha costruito una nuova rivoluzione tecnologica, ma anche umana. Ha completato la vittoria del concetto di “I”, dell’io, dell’individualismo.

Così assume un significato importante il discorso di Jobs nel 2005 all’Università di Stanford. Una vera lezione magistrale agli studenti di tutto il mondo, tradotta così dai media in italiano: “Siate affamati, siate folli”. Ha avuto l’effetto di contribuire alla santificazione iconica di un uomo, cancellando tante contraddizioni e critiche che si potevano muovere a un personaggio così importante per la storia degli ultimi decenni.

In un mondo che insegnava pian piano ai giovani a fare i conti con la crisi, con le rinunce, con i sogni di progresso traditi, quella frase è rimasta lì, nell’inconscio collettivo di una generazione. È l’insegnamento ad essere testardi e ad essere sé stessi che nessuno ha dimenticato. L’invito a continuare sulla propria strada, a provare ad anteporre il proprio io e il proprio sogno ai ragionamenti pragmatici di chi lo considerasse una follia.

5. Le vittorie arrivano nel momento giusto, Marco Civoli, “Il cielo è azzurro sopra Berlino”, 2006
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Fabio Grosso poco prima di tirare il rigore

“Non vinceremo mai”. Era la frase più ripetuta dopo la sconfitta nella finale di calcio maschile europea del 2000. Quell’Italia-Francia persa negli ultimi secondi dopo aver dominato il torneo e la finale (leggi anche Italia e Europei). Match perso con un Golden goal che insieme alle ingiustizie arbitrali di Italia-Corea del Sud nel 2002 sarebbe diventata la più grande beffa per la storia della nazionale azzurra. Una delusione seguita alle altrettanto cocenti amarezze degli anni ’90, quando il Belpaese, capitale del calcio mondiale, perde per tre volte di fila nella lotteria dei rigori, nella consapevolezza di avere la squadra più forte del mondo.

Eppure le vittorie se le sai aspettare arrivano e nel momento giusto. Quando Calciopoli aveva ormai distrutto l’immagine del nostro calcio, creando una frattura nei tifosi mai davvero rimarginata. L’11 di Marcello Lippi nel 2006 porta a casa la Coppa del mondo, vincendo due bestie nere: i francesi e i calci di rigore. Tutto con un unico tiro dagli undici metri di Fabio Grosso, giocatore fino a quel torneo poco conosciuto, ma diventato eroico e fondamentale contro l’Australia e contro la Germania.

Dopo i 120 minuti di una finale vista da 700 milioni di persone in tutto il mondo; dopo il cucchiaio di Zinedine Zidane su rigore a Gianluigi Buffon; il pareggio di Marco Materazzi; l’espulsione del numero 10 francese; la traversa di David Trezeguet. L’Italia è con il fiato sospeso, perché il team azzurro è in vantaggio nella lotteria dei rigori con cui si sceglierà la squadra campione del mondo. Fabio Grosso sta per tirare il penalty decisivo. Poi la palla gonfia la rete e il giornalista Rai Marco Civoli trova le parole giuste per raccontare quell’impresa: “Il cielo è azzurro sopra Berlino”.

Citazione cinematografica che racchiude il senso epico di quella vittoria nello stadio tedesco, lo stesso delle Olimpiadi del 1936, dell’impresa dell’atleta americano di colore Jesse Owens sotto gli occhi di Adolf Hitler. Perché gli italiani tirano fuori il meglio di sé nelle situazioni più difficili. Perché le vittorie prima o poi arrivano, anche se tante delusioni sembrano a volte farcelo dimenticare.

6. Bisogno di realizzarsi, Tommaso Padoa Schioppa, “Mandiamo i bamboccioni fuori di casa”, 2007
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I millennials italiani non hanno avuto un buon rapporto con la politica e i suoi rappresentanti. Hanno finito per premiare di volta in volta nelle elezioni il nuovo di turno con voti di protesta. Hanno avuto poca voglia di esaltare l’appartenenza ad un partito. Anche la politica però ha fatto davvero poco per coinvolgere questa generazione nel dibattito pubblico.

Tutto inizia nel 2007 con la frase spiacevole del ministro dell’Economia del governo Prodi Tommaso Padoa Schioppa (foto accanto): “Mandiamo i bamboccioni fuori di casa”. Dito nella piaga e nelle frustrazioni di una generazione. Sebbene il riferimento era ai 28enni di allora (tecnicamente la generazione precedente) i Millennials l’hanno sentita sulla loro pelle negli anni a venire. Man mano che crescendo aumentavano le difficoltà, si dilatavano i tempi per raggiungere gli obiettivi. L’Università si trasformava in una corsa ansiosa contro il tempo, la ricerca di un posto di lavoro diventava disperata in un decennio di crisi e precarietà. L’impegno però per fuggire dal nido materno, farsi una vita propria, è stato vissuto come necessario da quella frase in poi, provocando un’inquietudine psicologica sintetizzabile così: “Vorrei, ma non posso”.

Effettivamente la politica invece di essere vista come la sede di un dibattito da cui potesse emergere un cambiamento positivo, è stata vissuta come un’insensibile moltiplicatrice di ingiustizie, nella sua incapacità di dialogo e nella sua arroganza. Quindi solo un anno dopo, di fronte ai tagli alla scuola del governo Berlusconi, esploderà la protesta studentesca. Anche lì però la politica si arroccherà nel palazzo, lanciando avvisi ai naviganti e ridicolizzando le proteste, travolta negli anni Dieci anche dai voti della generazione Y.

7. La responsabilità, Gregorio De Falco, “Salga a bordo, cazzo!”, 2012
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Gregorio De Falco

In un clima di crisi economica e culturale, la tragedia del naufragio della Costa Concordia al largo dell’Isola del Giglio diventa davvero la metafora per l’opinione pubblica internazionale di un paese alla deriva. In particolare colpisce tutti l’irresponsabilità del Comandante Francesco Schettino, che abbandona la nave dove decine di passeggeri stanno morendo.

Contro di lui si scaglia in una telefonata, le cui registrazioni finiscono su tutti i giornali, il Comandante Gregorio De Falco (foto accanto), futuro parlamentare italiano. Nelle telefonate dalla capitaneria di Livorno parte l’ordine indimenticabile “Salga a bordo, cazzo!”

Sintesi della rabbia nei confronti di tutti gli irresponsabili che si trovano in posizioni di comando senza merito e che finiscono per provocare disastri e tentare la fuga. L’irresponsabilità è considerata un male non scusabile per la generazione Y, insofferente nei confronti di una classe dirigente, di capi e di anziani corresponsabili del disastro a cui è andata incontro l’Italia negli anni della Grande Recessione e poi della Pandemia.

8. L’importanza dell’istruzione, Barack Obama, “Noi resteremo un grande paese non tanto perché abbiamo un grande esercito, ma perché abbiamo grandi università”, 2012
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La generazione dei millennials più delle altre è stata affascinata dallo spoglio elettorale degli Usa. Anche grazie alle Maratone organizzate su La7 dal direttore Enrico Mentana e ad un sistema elettorale mediaticamente affascinante. Tanti sono i giovani che rimangono in piedi in attesa dell’esito delle consultazioni americane, complici anche gli incredibili colpi di scena che dal 2000 caratterizzano la notte politica più calda d’Oltre-atlantico.

Ed è Barack Obama (foto accanto) ad aver catalizzato l’attenzione della generazione Y in tutto il mondo. Una figura capace di produrre speranza, ma anche disilludere. Una grande forza comunicativa, con discorsi e frasi entrate nella storia, in netta contrapposizione con i suoi predecessori e successori. Nel discorso per la rielezione del 2012 il Presidente americano sfodera una delle sue più famose massime: “Noi resteremo un grande paese non tanto perché abbiamo un grande esercito, ma perché abbiamo grandi università”.

Una frase in linea con il pensiero di quei giovani che anche dall’Italia seguono il discorso. Una cosa accomuna i millennials, la convinzione che l’istruzione e la ricerca siano le chiavi per la crescita di un Paese. Questa è la ragione per cui quattro anni prima avevano dato vita al movimento dell’Onda universitaria. Un’idea che li ha messi in contrapposizione con un governo che attraverso il ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti aveva detto la tristemente famosa battuta: “Con la cultura non si mangia”.

9. Il ruolo della donna, Game of Thrones, “Erano le regole, non io, ad essere sbagliate”, 2017
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La generazione dei millennials è un po’ la generazione delle serie, di Netflix, delle Tv on demand, la cui educazione sentimentale, culturale e affettiva si completa attraverso le stagioni delle proprie storie preferite. Finalmente negli anni Duemila il cinema e le serie, inoltre, introducono nell’immaginario collettivo personaggi femminili meno stereotipati del passato, rispondendo in anticipo di qualche anno alla rivoluzione “Me too”.

Gli anni Dieci anche in Italia sono stati dominati dal dibattito sul ruolo della donna. Inizia tutto con la reazione agli scandali sessuali e alle battute misogine del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nel 2009 il premier arriva a definire la vice presidente del Senato e figura storica del Pd Rosy Bindipiù bella che intelligente”, imbarazzando lo studio dellla trasmissione televisiva Porta a Porta. In quel periodo minimizza anche gli scandali sessuali che lo investono, travolgendo l’immagine pubblica del paese per sempre macchiata dal Ruby-gate e dal “Bunga bunga”. Nasce il movimento “Se non ora, quando?”. Serpeggia un collettivo rifiuto di una società basata su un virilismo tossico e su un patriarcato volgare e poco inclusivo.

Per fortuna a rispondere a questo bisogno globale c’è un mondo della cultura molto più vasto, più eterogeneo rispetto al passato e alla Tv generalista. Sky e Now Tv distribuiscono con successo la Serie Fantasy Game of Thrones. Il personaggio di Arya Stark in particolare è fonte inesauribile di ispirazione: ribelle e giusta, responsabile e coraggiosa, risoluta e riflessiva. Una sua frase racchiude forse ciò che le ragazze della generazione Y hanno pensato per anni e che finalmente hanno potuto dire al mondo unite: “Erano le regole, non io, ad essere sbagliate”.

10. La pandemia, Giuseppe Conte, “Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore domani”, 2020
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Giuseppe Conte (foto accanto) rimarrà nella storia per i suoi discorsi e le sue frasi ad effetto. Per quella efficacissima capacità di rivolgersi agli italiani e bacchettare gli avversari. All’inizio della pandemia è stato capace di trovare le parole giuste per convincere gli italiani, descritti spesso come furbi e ingovernabili, a restare a casa, alla disciplina per combattere il mostro, il Covid.

Il suo discorso dell’11 marzo e la frase “Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore domani” rimarranno indimenticate. Un po’ come in passato lo sono diventati il discorso di Winston Churchill sulla necessità di non arrendersi ai nazisti o il proclama alla radio che annunciava l’armistizio dell’8 settembre 1943. Il presidente del Consiglio che sembrava un alieno, l’avvocato del popolo del governo gialloverde, il papa straniero di origini foggiane inviso alle classi dirigenti del Nord Italia, scrive una pagina indelebile della comunicazione politica. Tutti ricorderemo dove e con chi eravamo quando sono state pronunciate queste parole.

Per i millennials su cui la pandemia crolla addosso nel momento più delicato della loro vita, la frase è una carezza e una beffa. Dopo una lunga attesa in panchina, gli anni Venti erano il decennio della verità, quello in cui costruire la propria vita tra le mille difficoltà del precariato e della crisi. Ancora una volta però la storia ha chiesto agli Y un sacrificio, di attendere un altro anno, l’ultima “nottata” (speriamo) prima della rinascita. Oggi le vaccinazioni rappresentano la speranza di poter abbracciare finalmente quel futuro mancato, per dirla alla Conte di “correre più veloci domani”.

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