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Quelle volte che le Olimpiadi hanno sfidato la storia

Le Olimpiadi estive, dopo cinque anni di attesa, sono tornate. Grazie alla tenacia giapponese e malgrado l’era Covid non sia ancora terminata, il grande evento sportivo non sarà rinviato. Oggi a Tokyo è il giorno dell’inaugurazione e dopo le soddisfazioni non solo sportive raccolte dal Belpaese quest’anno (leggi anche L’Italia sta cambiando? E Leoni a Wembley), tutti sperano di vedere altre imprese azzurre.

In attesa di guardare i nostri atleti affrontare le gare, sperando di sognare ancora, contempliamo il senso storico che l’appuntamento di Tokyo rappresenta per il mondo intero. L’anno scorso per la prima volta nella storia dai conflitti mondiali, sportivi e tifosi avevano dovuto rinunciare all’evento. Rinviato appunto al 2021, a questo 23 luglio in cui abbiamo voglia di ricominciare, ma siamo anche preoccupati dall’espandersi della variante Delta, oltre che ancora spaventati dal recente passato.

Le Olimpiadi, tra qualche preoccupazione e un coraggio che speriamo non riveli una temerarietà troppo forte, devono sfidare la storia. Così mentre attendiamo che gli dei olimpici compiano i loro miracoli, alla luce della sacra torcia, riavvolgiamo il nastro e riscopriamo tutti i momenti in cui i cinque cerchi hanno sfidato il mondo che fu, contribuendo a volte a costruire quello che verrà. In passato effettivamente spesso singoli atleti e grandi team hanno, attraverso la rappresentazione sportiva, urlato contro l’era buia che li circondava, donandoci storie leggendarie e esempi indimenticabili. Abbiamo deciso di rivivere e raccontare quei momenti, in attesa di conoscere il volto delle Olimpiadi che verranno.

1 Jesse Owens vs Adolf Hitler…
Jesse Owens, salto in lungo

È il 1936. L’Europa nel suo cuore, nella Germania degli scienziati, degli espressionisti e dei filosofi ha covato il germe del male. Ora attraverso la propaganda culturale, come organizzatrice delle Olimpiadi, la patria del nazismo marcia nell’immaginario collettivo del mondo intero. Tra qualche anno a marciare saranno i mezzi militari.

Adolf Hitler è l’emblema del male assoluto. Tutta la propaganda tedesca è rivolta ad esaltare le teorie folli dei gerarchi tedeschi e la superiorità della razza ariana, anche attraverso lo sport. A guastare la festa però sarà un afro-americano, Jesse Owens, che vincerà quattro medaglie, stabilendo un record incredibile. Porta a casa la medaglia nei 100 metri e nei 200, nel salto in lungo e nella staffetta 4 x 100. Stabilirà anche quattro record nelle gare.

Il 4 agosto in particolare (giorno del salto in lungo) si esibisce sotto gli occhi del Führer, vincendo nello stadio di Berlino, quello che 70 anni dopo avrebbe ospitato la finale mondiale di calcio maschile Italia-Francia (leggi anche l’articolo sui Millennials). I giornali inventarono poi la fake news della fuga del “grande” dittatore umiliato dalla vittoria dello statunitense. In realtà a quanto Owens scrive, nonostante un finale di certo poco apprezzato, Hitler avrebbe comunque tributato un doveroso saluto all’atleta.

…E vs Roosevelt

Questo non sminuisce il senso della vittoria, quel trionfo che sfidava le certezze del regime più orrendo della storia. Quello che invece di certo queste medaglie non hanno rappresentato è ciò che la propaganda americana successiva per anni ha cercato di insinuare: la vittoria di una nazione esempio di inclusività e uguaglianza. Le cose purtroppo vanno diversamente e il campione olimpico dovrà affrontare per anni l’atavico razzismo a stelle e strisce.

Il presidente democratico Franklin Delano Roosevelt si rifiuta davvero di incontrare l’eroe afro-americano per non indispettire gli stati del Sud. D’altronde fino alla presidenza Kennedy, i democratici avevano molti consensi tra i razzisti del Sud, a differenza dei Repubblicani. Era stato effettivamente il Repubblicano Abraham Lincoln a bandire la schiavitù. E così anche Jesse Owens farà campagna elettorale contro la rielezione del Presidente del New Deal.

2 Le olimpiadi del ‘68
Foto di pubblico dominio di Angelo Cozzi

Razzismo e atlelti afro-americani a stelle e strisce. Premiati in giro per il mondo e maltrattati in patria. Storia che continuerà anche nel Secondo Novecento. Per esempio con la controversa storia raccontata da Muhammad Alì, che avrebbe gettato la medaglia olimpica conquistata a Roma in un fiume come protesta dopo l’ennesimo atto di razzismo.

Ci sarà qualcuno che sfiderà il razzismo direttamente sul podio olimpico, in modo plateale e regalandoci uno degli scatti più belli del Novecento. Succede in un’edizione non casuale, nel 1968. È l’anno che scuote la società borghese e le potenze mondiali attraverso le proteste e la voglia di cambiare il mondo dei giovani. Anche l’Olimpiade viene contagiata da un clima effervescente, che non lascia indifferente nessun settore della società.

Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi messicane sono arrivati primo e terzo nei 200 metri. Un altro successo degli Usa, da tributare alla narrazione americanista che proprio di questi trionfi si nutre. E invece con un semplice gesto i due atleti afro-americani ricordano al mondo intero che negli Stati Uniti era in corso una battaglia importantissima per i diritti civili. Da poco è stato assassinato Martin Luther King e il razzismo nei confronti degli afro-americani è fortemente radicato nella società americana. Così durante l’inno i due campioni abbassano il capo e tirano su il pugno racchiuso in un guantone nero. Un gesto indimenticabile e coraggioso contro le violazioni dei diritti umani.

3 Il bagno di sangue, 1956
Rivoluzione ungherese

Facciamo un passo indietro e torniamo agli anni Cinquanta e all’Europa dell’Est. Dobbiamo varcare la cortina di ferro per occuparci di un’altra superpotenza e di un altro mondo anch’esso ricco di ingiustizie che spesso trovavano riflesso nel mondo dello sport. Non è una storia bella, di quelle che oggi otterrebbero applausi, o in grado di far sospirare gli appassionati di sport. Non è il classico “magari fossi stato lì per vederlo”. Ci regala però una pagina indimenticabile per raccontare l’orgoglio del popolo ungherese.

È il 1956 ed è appena finita la Rivoluzione ungherese. Quell’insurrezione antisovietica, che l’Urss aveva soffocato con un’invasione. È un mondo diviso in due blocchi e in cui la libertà di autodeterminazione dei singoli popoli, soprattutto nell’Europa umiliata dalla Seconda guerra mondiale, cede di fronte al Risiko della Guerra fredda. Così come a Cuba gli Usa organizzano qualche anno più tardi lo sbarco nella Baia dei porci o in Europa occidentale un Paese come l’Italia non avrebbe potuto eleggere un governo comunista (leggi anche 2021vs1968 e Droga e movimenti giovanili), così nel blocco sovietico ogni tentativo di affrancarsi dal giogo russo veniva soffocato con forza.

Le Olimpiadi australiane di Melbourne si tengono dopo poco. Iniziano a solo una decina di giorni da quell’evento e lo sport non può non venire contagiato da questo clima. Il 6 dicembre di quell’anno la grande Ungheria della pallanuoto (una vera superpotenza nel campo) deve sfidare l’Urss. La partita tra le due nazionali maschili si carica di un significato politico che spinge i giocatori a violenze verbali e fisiche. Se le danno per davvero e la piscina si colora di rosso. “Il bagno di sangue”, appunto. In particolare è il colpo subito dal giocatore Ervin Zádor a rimanere indimenticabile e a scatenare i tifosi sugli spalti, che abbandonati i posti a loro assegnati giungono infuriati a bordo piscina. I sovietici rischiano il linciaggio, gli ungheresi vincono la semifinale contro di loro e conquistano l’oro olimpico, difendendo l’orgoglio di un popolo e ribellandosi in quella piscina alla prepotenza russa.

4 Il miracolo su Ghiaccio, 1980
Miracolo sul ghiaccio

Ne abbiamo già parlato nell’articolo Quelle vittorie che cambiano una comunità. Non possiamo però non citare quell’evento, che oltre che sfidare la storia, finisce per contribuire a cambiarla. Il Miracolo su ghiaccio è per la Guerra fredda un episodio chiave. Durante le olimpiadi invernali del 1980 nell’hockey su ghiaccio si confrontano in un match indimenticabile gli Usa, con una squadra di dilettanti, contro la nazionale più forte a livello mondiale: l’Urss. In quel confronto si sfidano due mondi in conflitto tra loro. Da una parte una superpotenza in crisi economica e di identità, gli Usa, sfiancata moralmente dalle violenze degli anni Sessanta, umiliata dalla sconfitta in Vietnam, dal Watergate e dalla crisi degli ostaggi in Iran. Dall’altra parte c’è invece un’Unione Sovietica che l’anno prima aveva iniziato con sicurezza la disastrosa invasione afgana. L’esito sarebbe scontato, ma in quella partita succede però l’imprevedibile.

L’Unione sovietica è stata un’invidiabile superpotenza sportiva, ma ha anche perso alcune partite e alcune occasioni, che hanno finito per assumere un’importanza storica dal punto di vista dell’immagine fornita al mondo. Nel 1980, durante i giochi di Lake Placid, i sovietici perdono una partita sulla carta già vinta contro una nazionale maschile formata da universitari e dilettanti. Una squadra di cui faceva parte anche un italiano: Mike Eruzione. Eppure la potenza socialista aveva vinto le quattro edizioni precedenti del torneo e sembrava davvero imbattibile.

Quella vittoria fu vissuta come la resurrezione dello spirito americanista. Gli Stati Uniti vinceranno poi anche la medaglia d’oro, ma ad essere ricordato più che il trionfo olimpico è proprio il confronto diretto con i russi. Preludio del reaganismo, della vittoria nella Guerra fredda, dell’affermazione globale del modello americano.

5 Un’altra Australia, 2000
Freeman, ultimo Tedoforo nel 2000

In Australia, come nelle Americhe, i colonizzatori europei hanno distrutto le civiltà che in precedenza abitavano queste terre. Gli aborigeni sono stati privati di terre, dignità e diritti per decenni, prima di un percorso di riconoscimenti e scuse iniziato solo negli ultimi anni del Novecento, ma che è ancora profondamente lacunoso. Moltissimo si deve fare per questi popoli feriti e forse non sarà mai davvero abbastanza per ripianare le ingiustizie sociali e politiche accumulatesi negli anni.

Cathy Freeman, medaglia d’oro nei 400 metri nelle Olimpiadi di Sydney, è stata una protagonista importante di questo tentativo di costruire una nuova Australia inclusiva e diversa. È stata la prima aborigena a conquistare una medaglia olimpica, tifata da tutta l’Australia, che si è riconosciuta in lei. Tanto che proprio in quella occasione è stata scelta come ultimo tedoforo.

La storia di questa campionessa non cancella le responsabilità dello stato australiano. Decenni di ingiustizia sono ancora lì e urlano contro gli squilibri sociali che ancora interessano l’isola. Però quel trionfo è stato anche una ribellione contro la storia, un modo di annunciare che ci può essere un mondo diverso, fatto di comprensione e accoglienza reciproca.

6 Atleti olimpici rifugiati, 2016
Mardini dopo la batteria vinta a Rio 2016

Nel 2016 una novità interessante voluta dal Cio è la squadra degli Atleti Olimpici Rifugiati. Un vero modo di sfidare la storia per generazioni di atleti sfortunati, nati nel periodo storico sbagliato nel paese sbagliato. In questo senso il caso di Yusra Mardini è sicuramente emblematico.

Dal 2011 inizia in Siria, in seguito alle rivolte della primavera araba, una lunga guerra civile (leggi anche Come scoppiò la guerra in Siria). Conflitto che scrive diverse pagine vergognose della storia dell’umanità e che avrà conseguenze importanti sul Mediterraneo, sull’Europa e sugli equilibri tra le grandi potenze del XXI secolo. Yusra Mardini è una figlia di questa Siria distrutta, ma è una grande nuotatrice e usa le sue abilità agonistiche per qualcosa di più che una medaglia. Nel 2015 sta fuggendo dal suo paese su un gommone, ma il mare quel giorno è, come spesso accade, cattivo nei confronti di chi lo attraversa in balia alla disperazione. Così si tuffa in acqua insieme ad altre due persone e trascina l’imbarcazione verso terra, salvando la vita a chi era a bordo.

Con la squadra dei rifugiati l’atleta siriana non otterrà la medaglia olimpica. Partecipa, però, portando la sua testimonianza sui dolori e sulle vite di chi affronta il mare per sfuggire alla morte e vede nell’Europa una speranza e un faro per il futuro. Ha anche vinto una batteria nei 100 metri farfalla, ma non è questa la vera vittoria. Perché per lei, che ha affrontato quel viaggio della speranza, esserci è già una grande conquista:

“Non c’è da vergognarsi nell’essere un rifugiato se ricordiamo chi siamo. Siamo ancora i medici, gli ingegneri, gli avvocati, gli insegnanti, gli studenti che eravamo quando ci trovavamo nelle nostre case. Siamo ancora madri e padri, fratelli e sorelle. È stata la guerra a costringerci ad abbandonare le nostre case. Ecco che cos’è un rifugiato. Ecco chi sono io, ecco chi siamo tutti noi, quella popolazione senza patria che cresce un giorno dopo l’altro”.

Leggi anche caso Schwazer