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Cile, la finta nazionalizzazione del litio di Boric

“Dobbiamo ascoltare la tua chiamata. La nostra Madre Terra, militarizzata, recintata, avvelenata, un luogo dove i diritti fondamentali sono violati sistematicamente, ci chiede di agire. Costruiamo società capaci di convivere con dignità così da proteggere la vita. Uniamoci e manteniamo la speranza mentre difendiamo e curiamo il sangue della Terra e i suoi spiriti” (Berta Cáceres, attivista per i diritti degli indigeni e ambientalista del popolo Lenca, assassinata in Honduras nel 2016).

“Il Cile ha le più grandi riserve mondiali di litio, un minerale che trovandosi nelle batterie, nelle auto e negli autobus elettrici, è fondamentale nella lotta alla crisi climatica ed è un’opportunità di crescita economica che difficilmente tornerà a breve termine. Unito allo sviluppo dell’idrogeno verde e alla conoscenza generata nelle nostre università e comunità, è la migliore possibilità che abbiamo di muoverci verso un’economia sostenibile e sviluppata. Non possiamo permetterci di sprecarlo”, ha dichiarato il presidente Gabriel Boric lo scorso 20 aprile.

“In Cile oggi il litio si estrae solo nel Salar de Atacama (nella foto principale, ndr) e, comunque, anche così la produzione del nostro paese rappresenta oltre il 30% del mercato globale. Il potenziale che abbiamo è enorme. Oltre al Salar de Atacama, ci sono più di 60 saline e lagune saline. Questa politica, quindi, sarà anche una crociata per esplorarle, valutarne il potenziale estrattivo e, cosa molto importante, delimitare anche le aree protette e le lagune dove non verranno installati impianti”, proseguiva la dichiarazione del presidente.

“Queste saline e lagune non sono solo litio, sono persone, sono comunità, sono acque del deserto, sono biotecnologie e altri minerali, sono la dimora di antiche culture e sono testimoni del passato che oggi conserveremo per un futuro migliore. La nostra strategia di sviluppo perciò deve essere costruita rispondendo alla crisi climatica e, quindi, garantendo il minor impatto ambientale possibile su questi ecosistemi. Come Stato imprimeremo una svolta allo sviluppo umano e tecnologico del Paese, se lo facciamo bene e, compatrioti, non ho dubbi che possiamo farlo bene. La nostra sfida è che il nostro Paese diventi il ​​principale produttore di litio al mondo, aumentandone così la ricchezza e lo sviluppo, distribuendolo equamente e tutelando la biodiversità delle saline”.

Il presidente del Cile, Gabriel Boric
Una “nazionalizzazione” che piace alle imprese

Il Cile, in effetti, possiede le maggiori riserve di litio al mondo, che, per ora, non sono state ancora sfruttate appieno. Oggi, di fronte al nuovo business creato dalla transizione ecologica questo minerale è diventato una fonte di ricchezza ben più pregiata del petrolio. Riguardo l’amministrazione di queste risorse esiste già, nella controversa Costituzione degli anni Ottanta, una prescrizione. È contenuta nell’articolo 19, comma 24, secondo cui “Lo Stato ha il controllo assoluto, esclusivo, inalienabile e imprescrittibile su tutte le risorse minerali, comprese covaderas [depositi di guano], sabbie metallifere, saline, giacimenti di carbone e di idrocarburi e altre sostanze fossili, ad eccezione delle argille superficiali, anche se la proprietà dei terreni nelle cui viscere si trovano è di persone fisiche o giuridiche private. Spetta alla legge determinare quali sostanze […] possono essere oggetto di concessioni per esplorazione o sfruttamento. Dette concessioni saranno sempre decise con risoluzione giuridica […]”

In tal senso, prima di occuparsi della Strategia Nazionale Litio, bisognerebbe informarsi sull’attuale legittimità costituzionale delle due concessioni attualmente in vigore a beneficio di Sqm (Sociedad Quimica y Minera de Chile) fino al 2030 e di Albermarle fino al 2043.

Forse è per questo che, contrariamente a quanto previsto, le aziende private che vogliono investire nel litio cileno o in altre risorse nazionali e che finora avevano avuto un impedimento legale a farlo, oggi plaudono alla proposta di “nazionalizzazione” del litio, che a tutto assomiglia tranne che a una vera e propria nazionalizzazione.

Non è strano, dunque, sentire la discreta felicità di Wealth Minerals, società fondata nel Salar de Atacama e dedita all’estrazione del litio, che ci ha rilasciato il seguente commento sul provvedimento di Boric: “Dopo l’annuncio del presidente Boric per noi si è aperta la possibilità di entrare in società con lo Stato come soci di minoranza e quindi di andare in direzione di una gestione del Progetto che coinvolga lo Stato, le imprese private e la società civile. È importante sottolineare che secondo l’attuale Costituzione il litio e l’uranio non possono essere dati in concessione e solo lo Stato può sviluppare progetti industriali. Il governo, pur mantenendo la maggioranza del capitale in mano allo Stato e rispettando il dettato costituzionale, ha incorporato società private. Da ciò traggono beneficio tutti i cileni, dato che lo Stato riconosce di non avere l’esperienza tecnica per sviluppare in breve tempo progetti basati su questo metallo complesso, il cui mercato vivrà 15-20 anni, una sostituzione che è già in fase sperimentale”.

Società in eterno sviluppo

Che il litio sia nelle mani di cileni o stranieri resta il problema sociale che colpisce sempre ogni luogo che diventi sede di estrazione mineraria. Le società circostanti ne sono direttamente colpite e nessun bonus o compenso sarà sufficiente per restituire loro acqua o terra che non esistono più.

Tom Gatehouse, che abbiamo intervistato per El Clarín de Chile, spiega molto bene tutte le sfide che le società devono affrontare nelle aree minerarie nel suo ultimo libro, che ha appena pubblicato, The Hearth of our Earth: “Dai tempi di Colombo e dei conquistadores spagnoli la storia dell’America Latina è stata strettamente legata all’attività mineraria. Tuttavia, negli ultimi decenni, l’industria ha assunto nuove vaste dimensioni, diventando molto più potente e distruttiva di qualsiasi attività sperimentata in periodi precedenti. Spinte dagli alti prezzi dei minerali le compagnie minerarie si sono spostate in paesi in cui fino ad ora avevano poca o nessuna presenza, avventurandosi in aree sempre più remote ed ecologicamente sensibili, come le alte montagne delle Ande e nel profondo della giungla amazzonica. Ciò ha comportato cambiamenti sociali e ambientali senza precedenti: interi paesaggi sono stati radicalmente trasformati e stili di vita che nei secoli erano mutati in misura ridotta in alcuni casi sono scomparsi del tutto. Purtroppo con l’espandersi dell’estrazione mineraria si sono ampliati anche i conflitti sociali, con le comunità in prima linea che si mobilitano in difesa delle loro terra, acqua, mezzi di sussistenza e culture. Questa resistenza si è diffusa in tutta la regione e ha assunto le forme più diverse: dai posti di blocco alle indagini; dal sabotaggio al teatro di strada. Mentre alcune comunità hanno pagato un prezzo pesante per la loro opposizione, altre hanno ottenuto vittorie impressionanti. The Heart of Our Earth racconta la loro storia: come l’industria mineraria li ha colpiti, come hanno difeso se stessi e le loro visioni di un futuro più giusto e più sostenibile. Scritto in un linguaggio chiaro e non tecnico, The Heart of Our Earth è rivolto a studenti, accademici, attivisti, giornalisti e chiunque si sia mai interrogato sui costi reali dei metalli che sempre più alimentano le nostre vite”.

Il tema che Gatehouse affronta è più attuale che mai: il cambiamento climatico sembra essere l’oggetto prioritario di tutte le agende internazionali e, per affrontarlo, la transizione ecologica sembra essere la soluzione giusta. Purtroppo, per portare a compimento questa “transizione” sono necessarie diverse materie prime e ciò provoca conflitti tra potenze mondiali per accaparrarsi lo sfruttamento di tali risorse, nonostante i costi ambientali dell’estrazione. I metodi applicati variano a seconda dei paesi, ma gli esiti distruttivi nei confronti dell’ambiente sono sempre gli stessi e, alla fine, ciò che si dovrebbe fare a favore dell’ambiente gli si ritorce contro.

Ecco perché, a volte, più che parlare di transizione ecologica, bisognerebbe parlare di un business ecologico, in cui paesi come il Cile, che non hanno la tecnologia per trasformare la loro materia prima in un prodotto da esportazione, sono comunque destinati a restare indietro.

José Pimentel, ex ministro delle Miniere e della Metallurgia della Bolivia ai tempi di Evo Morales, ci aveva spiegato questo problema a proposito del litio boliviano: “Il solo litio, come materia prima, è altamente richiesto ma, a noi, come Paese, quel commercio non interessa: un progetto di esportazione di materia prima sarebbe un piccolo profitto a cui non si dà valore aggiunto, mentre industrializzare e produrre batterie sarebbe una fonte di lavoro nelle fabbriche e il valore del prodotto sarebbe molto più alto. Se non lo facciamo, ci riduciamo a vendere il litio e a comprare le batterie”, ci aveva spiegato nell’intervista (leggila qui).

Nelle fasi iniziali dello sviluppo economico dei paesi arretrati i principali problemi macroeconomici erano la disponibilità di risparmi, per finanziare gli investimenti necessari allo sviluppo industriale, e di valuta estera, necessaria per pagare le importazioni di macchinari, attrezzature e beni intermedi che quel processo richiedeva. Col ritorno dei flussi di capitali e il ruolo crescente della finanza privata interna l’attenzione si è sempre più concentrata su come gestire i cicli di boom-bust dei flussi di capitali privati, evitando anche potenziali crisi finanziarie domestiche e crisi del debito internazionali.

Nei dibattiti che hanno caratterizzato quei primi decenni di crescita delle economie in via di sviluppo la prima di queste questioni riguardava la gestione delle fluttuazioni dei prezzi delle materie prime e, in una prospettiva di più lungo termine, come i risparmi o i divari valutari potessero influenzare il processo di crescita.

In un’economia di questo tipo è molto difficile essere detentori di materie prime, ma lo è altrettanto raggiungere un’effettiva industrializzazione, per cui si è costretti a venderle così come sono, senza poter realmente salire nella scala dello sviluppo economico e sociale: perciò si resta in un limbo infinito, in uno stadio di sviluppo che in realtà non finisce mai di svilupparsi. Il Cile di Boric si trova nel pieno di questo limbo.