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Il diritto dei popoli a resistere… Di tutti però

Che siano palestinesi, saharawi o mapuche, c’è spesso una confusione di opinione pubblica sostenuta dalla potenza occupante che tende a definire “terroristici” gli atti di legittima difesa di questi stessi popoli all’interno di un conflitto. Legalmente, quel terrorismo non è così vero. Quando allora sarebbe legalmente legittimo resistere?

La guerra è vietata. La Carta delle Nazioni Unite lo definisce chiaramente: è illegale ricorrere alla minaccia o all’uso della forza contro altri stati. Dal 1945, la guerra non è più un modo accettabile per risolvere le controversie tra stati.

Tuttavia, la Carta delle Nazioni Unite non ha completamente vietato l’uso della forza. Infatti, in caso di uso (lecito o illegale) della forza, gli Stati conservano il diritto di difendersi, individualmente o collettivamente, da attacchi che minaccino la loro indipendenza o il loro territorio. Inoltre, il divieto dell’uso della forza, sancito dalla Carta, non si applica ai conflitti armati interni (o alle guerre civili). E questo vale anche quando l’autodeterminazione di un popolo è minacciata.

«Alla fine della Seconda Guerra mondiale, le Nazioni Unite hanno eliminato il diritto alla guerra. Tuttavia, tutti quei popoli che subiscono l’occupazione e combattono per la propria autodeterminazione, hanno diritto alla resistenza, anche armata», ha affermato Carmelo Faleh Perez, dottore in Diritto internazionale dell’Università di Las Palmas de Gran Canaria e professore di Diritto internazionale pubblico alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Las Palmas de Gran Canaria, durante una conferenza sul diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi, organizzata a Las Palmas de Gran Canaria dall’Associazione dei giuristi JUPADEHU.

«C’è confusione nell’opinione pubblica, appoggiata dal potere occupante, che di solito li chiama terroristi, ma non è così. Il popolo ucraino ha questo diritto, ma anche i palestinesi o i saharawi», continua Carmelo Faleh Perez. «Inoltre, non stiamo parlando di un conflitto armato interno, ma piuttosto di un conflitto armato internazionale, così come stiamo parlando di territori occupati».

Cosa significa “diritto bellico”?

Il diritto bellico, o diritto internazionale umanitario (come è formalmente noto) è un insieme di regole internazionali che stabiliscono cosa si può e non si può fare durante un conflitto armato.

Il diritto internazionale umanitario (DIU) si applica solo in caso di conflitto armato. Non copre situazioni di tensioni interne o disturbi interni, come atti di violenza isolati. È applicabile solo quando è stato innescato un conflitto e si applica allo stesso modo a tutte le parti, indipendentemente da chi lo ha avviato.

Il DIU distingue tra conflitto armato internazionale e conflitto armato non internazionale. Nei conflitti armati internazionali, almeno due stati si confrontano. In essi devono essere osservati molti standard, compresi quelli contenuti nelle Convenzioni di Ginevra e nel Protocollo Aggiuntivo I.

Quando un popolo difende la propria autodeterminazione dalle minacce di una potenza occupante, si parla di conflitto armato internazionale.

In un frammento della Risoluzione 2625 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, approvata per consenso, si contempla il diritto di resistenza: «Ogni Stato ha il dovere di astenersi dal ricorrere a qualsiasi misura di forza che privi i suddetti popoli della formulazione di questo principio del loro diritto all’autodeterminazione e alla libertà e indipendenza. Negli atti di resistenza in opposizioni a tali misure di forza per esercitare il loro diritto all’autodeterminazione, tali popoli possono chiedere e ricevere sostegno secondo i principi della Carta delle Nazioni Unite».

Il diritto all’autodeterminazione

Il “diritto all’autodeterminazione dei popoli”, in breve “il diritto all’autodeterminazione” (conosciuto colloquialmente anche come “diritto di decidere”), è un diritto fondamentale tutelato al più alto livello dall’ordinamento giuridico internazionale. È incluso, tra gli altri strumenti giuridici, nella Carta delle Nazioni Unite (CNU 1945), articolo 1(2) della CNU 1945; nel Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR 1966), articolo 1(1)(3) dell’ICCPR 1966; nel Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR 1966), articolo 1(1)(3) dell’ICESCR 1966.

Oltre ai tre principali strumenti citati, il diritto all’autodeterminazione è incluso in numerosi altri strumenti a livello multilaterale e regionale, come la Dichiarazione sui principi di diritto internazionale in materia di relazioni amichevoli e cooperazione tra gli Stati in conformità con la Carta delle Nazioni Unite, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella sua Risoluzione 2625 (XXV), del 24 ottobre 1970, che riafferma, tra l’altro, che «l’autodeterminazione dei popoli costituisce un importante contributo al diritto internazionale contemporaneo»; e altri.

Pertanto, il diritto all’autodeterminazione non è contenuto solo nell’articolo più importante (articolo 1, sulle finalità delle Nazioni Unite) del trattato istitutivo della principale organizzazione internazionale (nota come “la Costituzione del mondo”), ma la sua rilevanza ai massimi livelli non ha cessato di essere ribadita negli anni in numerosi strumenti di molte organizzazioni internazionali.

Il diritto all’autodeterminazione è ampiamente riconosciuto anche nella giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia (casi Namibia, Sahara Occidentale, Timor Orientale, Kosovo) ed è oggetto di sviluppo da parte del Consiglio per i diritti umani e del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, organismi convenzionali che, tra gli altri, vigilano sul rispetto del Patto internazionale sui diritti civili e politici da parte degli stati che lo hanno ratificato. Infine, il diritto all’autodeterminazione è ampiamente coperto dalla dottrina internazionale.

Stati, giudici di tribunali internazionali e professori di diritto internazionale concordano sul fatto che il diritto all’autodeterminazione ha raggiunto lo status di jus cogens. Ciò significa «una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo insieme come norma che non ammette accordo contrario».

Il diritto all’autodeterminazione comporta la capacità intrinseca del popolo di decidere del proprio futuro politico, potendo liberamente privilegiare, in un dato momento storico, la piena integrazione in uno Stato anche senza differenziazione dalle altre regioni (garantendo eventualmente specifiche culture, diritti linguistici e religiosi), fino alla secessione e alla piena indipendenza; passando attraverso vari modelli di emancipazione regionale, autonomia o statuto speciale in uno Stato federale (in tutti i casi con gradi diversi di autonomia culturale, economica e politica).

Il diritto all’autodeterminazione consiste nella capacità dei popoli di decidere il proprio destino politico. Ciò include l’esercizio esterno del diritto all’autodeterminazione (decisione sulla secessione o l’unificazione) e l’esercizio interno dello stesso (decisione sul grado di integrazione in uno Stato). L’esercizio del diritto all’autodeterminazione comporta la partecipazione paritaria di un popolo al processo decisionale, in un dialogo continuo in cui le parti adeguano e riadattano i loro rapporti per il reciproco vantaggio. L’autodeterminazione è un’espressione della dignità umana come diritto umano nella sua dimensione olistica – collettiva e individuale.

Il principio dell’integrità territoriale non può essere usato come pretesto per ledere la responsabilità dello Stato di proteggere i diritti umani dei popoli sotto la sua giurisdizione. Il diritto all’autodeterminazione è un diritto riconosciuto ai popoli quali titolari del diritto, e non è prerogativa dello stato concederlo o negarlo, neppure in base al principio dell’integrità territoriale, salvo ingerenza esterna. In caso di contrasto tra il principio dell’integrità territoriale e il diritto umano all’autodeterminazione, è quest’ultimo a prevalere.

… Ma tutto questo, gli stati, lo sapranno?