Ucraina, fermare i guerrafondai e il richiamo della caverna

Che tempi bui. Dopo due anni di pandemia, il mondo si ritrova sull’orlo di una guerra mondiale. E non è un’esagerazione. Pochi giorni dopo la sciagurata invasione russa dell’Ucraina, siamo costretti a seguire le dolorose vicende belliche che accompagnano l’assedio di Kiev.

Il giardino di pace

Tolto ogni dubbio sul pessimo giudizio riguardo il presidente russo Vladimir Putin e il suo attacco spregiudicato contro un paese sovrano, non possiamo limitarci a osservare il teatro di guerra con gli occhiali della propaganda atlantista, secondo cui la Storia contemporanea va divisa in Bene – il malandato Occidente, bombe democratiche incluse – e Male – il “dittatore Putler”, colto improvvisamente da disturbi psichiatrici che mettono a repentaglio il nostro “giardino di pace” (copyright Mario Draghi, citando a sua volta lo storico Robert Kagan). Un Eden, proprio. Tanto è vero che la guerra in Ucraina, ahinoi ma soprattutto ahiloro, dura da otto anni. E pazienza se nel “giardino di pace” quasi nessuno se n’era accorto. Forse perché distratto, forse perché in fondo gli andava bene così.

Era il 2014, infatti, quando il golpe di EuroMaidan costringeva l’Ucraina a un cambio di governo in senso filo-occidentale, rovesciando l’esito del voto. La piazza, inizialmente dipinta come un colorato fremito democratico anti-corruzione, fece precipitare il Paese in una serie di violenze, inclusi massacri come la Strage di Odessa alla Casa dei Sindacati, durante la quale decine di persone furono bruciate vive dai neonazisti ucraini, rinvigoriti dal putsch antirusso. Non sono complotti, è la realtà. Che ha portato alla lotta d’indipendenza dei separatisti del Donbass e agli oltre 14mila morti di cui ben poco si è saputo sulle tv occidentali, passando per l’annessione russa della Crimea, infelice sul piano del diritto internazionale ma pacifica in termini di effettività.

Nato a Est

Otto anni di silenzi, ipocrisie e provocazioni. Sì, perché l’avvicinamento dell’Ucraina alla Ue e soprattutto alla Nato, che non ha consapevolmente disteso gli animi (anzi), è alla base della reazione sconsiderata di Putin, non intenzionato a vedere il suo Paese ulteriormente accerchiato da basi dell’organizzazione militare nordatlantica. E, come da ragazzo nella sua Leningrado, l’autocrate russo ha messo in pratica la filosofia del «se la rissa è inevitabile colpisci per primo». Dove la rissa, purtroppo, in questo caso è una guerra.

Fin qui, si direbbe, c’è il minimo ragionamento necessario non per giustificare, ma per capire com’è nata questa guerra, dopo mesi di crescente tensione da Washington (evidentemente l’obiettivo era proprio questo). Ragionamento che andrebbe allargato ulteriormente, quanto meno alla storia degli ultimi 32 anni. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca, infatti, i massimi rappresentanti del blocco occidentale – dal segretario generale della Nato Wörner a Margaret Thatcher, da Bush sr. a Mitterrand e Kohl, passando per il segretario di Stato Usa Baker – assicurarono che l’organizzazione militare difensiva nata in contrapposizione ai sovietici non avrebbe guadagnato terreno a Est.

L’Urss, caduta nel 1991 insieme al Patto di Varsavia, accettò senza garanzie scritte la promessa, non pensando che la parola occidentale sarebbe durata quanto un giro di valzer. E così fece la Russia, continuatrice indebolita dell’Unione Sovietica. E invece i paesi membri della Nato passarono in pochi anni da 16 a 30, conquistando ampi spazi proprio a Est. Complotti? Pretesti? Nemmeno questi. Tanto è vero che lo stesso Putin, durante la conferenza sulla sicurezza di Monaco del settembre 2007, pose la questione dell’espansione della Nato a Est, chiedendo di costruire un ordine mondiale più equo, dopo la fine della Guerra Fredda e la contrapposizione tra i due blocchi, che dopo la Seconda Guerra mondiale aveva tenuto il mondo in perenne agitazione.

Quale democrazia?

Si potrebbe continuare a lungo, ricordando i tempi della Guerra Fredda e gli effetti della stessa, strategia della tensione compresa. Oppure ricordando le origini dell’Ucraina, la donazione della Crimea e la conformazione di fatto plurinazionale del Paese che oggi, dopo l’aggressione subita, invoca un intervento che potrebbe scatenare un conflitto mondiale. E sarebbe anche salutare l’esercizio mentale a ritroso, perché senza riferimenti storici, culturali e geopolitici non si possono commentare alcune vicende complesse. Così come complesso è il Paese che continua a chiedere l’ingresso nella Ue e l’adesione alla Nato: un limite che avrebbe dovuto essere rilevato ben prima, chiudendo cortesemente ma decisamente le porte dell’alleanza.

Perché, infatti, dovremmo integrare un Paese che dopo il golpe ha inglobato tra le forze regolari miliziani neonazisti e di estrema destra che danno la caccia ai russi nel proprio paese (negli ultimi otto anni si calcolano addirittura milioni di profughi accolti dalla Russia)? Per quale assurdo motivo dovremmo rischiare una guerra mondiale per un Paese che ha recentemente istituito come festa nazionale il compleanno di Stepan Bandera, leader nazionalista che a metà del secolo scorso combattè contro l’Urss e collaborò con la Germania nazista (un mito per i nazionalisti di Kiev)? E che in 30 anni di indipendenza non ha processato un solo criminale di guerra nazista, nonostante un milione e seicentomila morti su sei milioni durante la Seconda Guerra mondiale fossero ebrei? Uccisi non solo dai tedeschi ma anche dalle bande filonaziste di Bandera, fedele a Hitler.

Anche se, in quanto a revisionismo storico, siamo forse noi occidentali ad avvicinarci ai “democratici” ucraini, che come il Parlamento Ue hanno equiparato comunismo e nazismo, nel solco dell’imperante russofobia che tende a nascondere persino il ruolo determinante dell’Armata Rossa ai fini della sconfitta del nazismo.

Censura liberale

A quanto pare, invece, su chiunque provi a esprimere dubbi rispetto alla crescente voglia di guerra – o semplicemente a ricordare i fatti così come sono avvenuti – cala la mannaia della censura liberale, arrivata a tacitare o mettere alla gogna giornalisti come Marc Innaro o Barbara Spinelli. Per non dire del direttore d’orchestra (Valery Gergiev) allontanato dalla Scala – e poi anche dalla Filarmonica di Monaco – solo perché russo e non pubblicamente anti-Putin (il progressistissimo Sala ha per caso mai chiesto abiure a professionisti statunitensi rispetto ai crimini a stelle e strisce?).

O ancora, per restare nel campo della cultura, il corso di Paolo Nori su Dostoevskij cancellato dall’Università Bicocca per «evitare polemiche», come annunciato in lacrime dallo stesso scrittore (poi l’università ha fatto dietrofront). O addirittura l’Anpi, accostata al “nazista Putin” solo perché, pur avendo premesso la condanna all’autocrate russo, si era permessa di criticare anche i venti di guerra provocati da Ovest e l’allargamento della Nato. E che dire della Fifa, indifferente rispetto al Cile di Pinochet ma feroce nei confronti della Russia di Putin? Un clima da caccia alle streghe, che lascia presagire una vera e propria propaganda bellica atlantista, per cui chi non si arruola è un nemico. Agghiacciante.

Si vis pacem para pacem

Ancora più preoccupante, se possibile, è il ritorno dell’interventismo militare che dagli Stati Uniti e dal Canada alla Ue, Parlamento italiano incluso, sta inondando l’Ucraina di armi. Un cortocircuito lampante, partito sulla base di giusti appelli per la pace trasformatisi nel desiderio di arruolarsi – seppur a distanza – con l’Ucraina. Se è vero che Kiev è invasa e aggredita da Mosca, non è vero che alimentando la guerra e gettando le basi per un ulteriore allargamento del conflitto si persegue la pace, come fintamente si è voluto far credere. D’altronde, quale miglior modo per giustificare una guerra se non appropriandosi del concetto di pace? E così, per la prima volta nella sua storia, la Ue finanzierà e consegnerà armi ed equipaggiamenti a un paese sotto attacco: un po’ come proporre di spegnere un incendio con un’autobotte piena di benzina.

Vista pure la terrificante minaccia nucleare di Putin, dove può portarci un clima di contrapposizione frontale che, invece di disarmare (anche idealmente) i guerrafondai di tutti i fronti, ne alimenta le ostilità facendo appello al richiamo non della foresta, ma proprio della caverna? Un sentimento primitivo che annebbia le menti e asseconda l’ossessione d’Oltreoceano, dove la possibile saldatura dell’Eurasia è vista come fumo negli occhi. Prova ne sono i tentativi di separare a tutti i costi la Russia dall’Europa (come Putin tenta di fare rispetto all’Ucraina), nonostante gli storici legami culturali e pure economici.

Mondo multipolare

Che fare dunque? Se l’obiettivo è far cessare immediatamente le ostilità e costruire un mondo più giusto, l’unica alternativa alla guerra mondiale è negoziare realmente, riconoscendo che il mondo di oggi (e ancor più di domani) è necessariamente multipolare. Non esiste più l’unilateralismo a guida Usa, gendarme globale (nel 1999, in ex Jugoslavia, anche sotto l’ombrello della Nato).

E non è benaltrismo ricordare gli innumerevoli conflitti che recentemente (se non tuttora) hanno insanguinato il mondo. Ora è Putin sul banco degli imputati, ma perché non adottiamo la stessa solerzia nei confronti di Israele o degli Stati Uniti? Come evidenziato dagli studi della Brown University, in 20 anni di “guerra al terrore” da parte degli Stati Uniti i morti sono stati 800mila tra Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen e Pakistan. Non solo: i conflitti iniziati o partecipati dagli Usa in otto paesi hanno provocato almeno 37 milioni tra rifugiati e sfollati interni.

Si potrebbe continuare quasi all’infinito, dai colpi di stato in America Latina al perdurante e illegittimo embargo contro Cuba, condannato svariate volte pure dall’Onu. Può questo assolvere o sminuire le responsabilità di Putin? No, certo. Ma come si può trincerarsi in una parte di mondo autoproclamatasi giusta, senza evidenziare le gigantesche ipocrisie che la sorreggono?

Ucraina neutrale, Europa autonoma

«Qualcuno crede davvero che gli Stati Uniti non avrebbero qualcosa da dire se, ad esempio, il Messico dovesse formare un’alleanza militare con un loro avversario»? A dirlo non è un sovranista putiniano ma Bernie Sanders, in un editoriale pubblicato sul Guardian l’8 febbraio. Ascoltare le ragioni della Russia per intraprendere un percorso di vera pace e rispetto reciproco significa rendere l’Ucraina neutrale. Nè nella Nato nè sotto la Russia. La stessa posizione che da settimane caldeggiavano personalità non certo bellicose come l’ambasciatore Sergio Romano. Questa è la strada da percorrere.

Allo stesso tempo sarebbe ora, per l’Europa, di diventare grande, liberandosi dall’assoggettamento alla Nato e agli Stati Uniti. Così, finalmente, il Vecchio Continente acquisirebbe la credibilità per ergersi ad attore fondamentale nelle relazioni internazionali. Promuovendo, finalmente, il dialogo e la pace.