A tu per tu con Roberto Morgantini, personaggio dell’anno di Ventuno

Il 2021 volge al termine. Tempo di bilanci, di riflessioni e di propositi per l’anno nuovo. Noi di Ventuno, nati proprio nell’anno che sta per lasciarci, vogliamo salutarvi con un’intervista speciale. Il nostro personaggio dell’anno rappresenta valori come solidarietà, inclusione, generosità e senso di giustizia. Valori praticati quotidianamente e non solo coltivati idealmente. Stiamo parlando di Roberto Morgantini, fondatore delle Cucine Popolari, qualcosa che a Bologna (e non solo) rappresenta ben più di un pasto caldo per i non abbienti, ma una filosofia di vita, basata sulle relazioni personali e sull’impegno civile.

Non lasciare nessuno indietro: questo è lo spirito che guida da una vita Roberto Morgantini, nominato Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana dal capo dello Stato Sergio Mattarella a dicembre del 2018 «per il suo prezioso contributo – come si legge nella motivazione – alla promozione di una società solidale e inclusiva».

Roberto Morgantini con il presidente Mattarella e i figli Emiliano e Francesco

Nato tra le montagne piemontesi della Val d’Ossola – patria della resistente repubblica liberatasi dal fascismo – e cresciuto a pane e politica, Morgantini vive a Bologna. Settantaquattro anni, sposato con Elvira e padre di Emiliano e Francesco, il nostro personaggio dell’anno è un esempio di virtù che ci auguriamo possa diventare faro per tutta l’Italia. Soprattutto in un momento in cui, per forza di cose, siamo tutti un po’ più soli. Con il rischio – per non dire con la certezza – che i più deboli restino ancora più indietro.

Partiamo dall’inizio. Roberto Morgantini nasce in Piemonte nel 1947.

«Sono fiero di essere nato in Val d’Ossola, la prima repubblica libera sotto il fascismo: la “Repubblica dell’Ossola”, che durò una quarantina di giorni. Una storia poco conosciuta».

I primi ricordi in famiglia?

«Padre partigiano, madre staffetta, non ho fatto fatica a capire da che parte stare. La nostra casa era aperta. La cucina in particolare, attiva 24 ore al giorno. Arrivavano compagni e amici dei miei genitori in continuazione, non ho mai mangiato da solo con i miei».

Ecco dove nasce la spinta a fondare le Cucine Popolari …

«Sicuramente. L’idea era di ricostruire non una mensa, ma una cucina. Perché la cucina aiuta a relazionarsi».

Morgantini da giovane?

«A 15 anni ero segretario della Fgci (la federazione giovanile del Partito comunista italiano di allora, ndr) del paese. Quante iniziative, per esempio a favore di Cuba… Erano gli anni ’60. La Val d’Ossola all’epoca era una zona industriale. Mia madre lavorava in una fabbrica che poi chiuse i battenti. Per mesi abbiamo vissuto dentro la fabbrica occupata: sin da piccolo sono cresciuto a latte e politica».

Ha ancora legami con la sua terra d’origine?

«Sono cittadino onorario di Villadossola. Però anche mio fratello e mia sorella non vivono più in Piemonte».

Arriviamo a Bologna.

«1967. Avevo 20 anni, frequentavo l’università. Lì sono entrato nel sindacato, dove ho lavorato fino al 2010. Alla Cgil».

Com’era Bologna?

«Era già un sogno. La “città rossa”, la città degli asili, della politica praticata. Sono sempre stato innamorato di Bologna. Anche un po’ per scappare dalle montagne e vedere cosa c’era oltre».

Politica attiva. Anche a Bologna ha continuato?

«Sì, ma dieci ore al giorno al sindacato erano già far politica. Sono stato a lungo iscritto al Pci. All’epoca andavo nelle case dei vari compagni per diffondere un volume sulla storia dei comunisti. Così ho cominciato a conoscere la Bologna autentica, quella di chi faceva attività nelle sezioni. Ho conosciuto da dentro una realtà che mi ha convinto al 100% rispetto alla mia scelta di vita».

In quel periodo il capoluogo emiliano era un centro di primo piano per la politica.

«Manifestazioni, scioperi… Ero dove avevo sempre sognato di essere: a fare politica e attività sindacale in mezzo alle persone. Alla Cgil mi sono occupato molto di questioni di salute e infortuni nelle fabbriche, relazionandomi con categorie trasversali».

Anni caldi. Le contestazioni, i movimenti…

«C’erano tanti gruppi. Da Lotta Continua al Manifesto. Avevo diversi rapporti e ci lavoravo insieme. Io desideravo una sinistra minimamente unita, anche allora. Cercavo di unire insomma, più che di dividere».

Poi la Svolta della Bolognina nel 1989, con lo scioglimento del Pci.

«Sofferenza e dolore. Come se mi portassero via qualcosa che mi apparteneva. Da lì sono cambiati un po’ gli schieramenti e le scelte, però io ho continuato a fare attività senza smettere».

Il sindacato.

«In quel periodo mi occupavo di immigrazione. I primi stranieri li ho incontrati tutti. Era un fenomeno nuovo a cui non si riusciva a dare una risposta. Eravamo tutti un po’ impreparati perché non c’era una legge organica sull’immigrazione. Eppure come Cgil c’eravamo».

Come?

«Con occupazioni o assegnazioni di scuole vuote dal Comune. Nelle scuole in cui dormivano queste persone ho istituito una quindicina di corsi di italiano gratuiti. Perché il problema principale, anche per lavorare, era la lingua. E ha funzionato, grazie a decine di insegnanti volontari».

Sempre in prima linea insieme agli ultimi.

«Negli anni ’90 ho fatto qualcosa anche in carcere, per esempio lanciando Voci di dentro, una rivista scritta proprio dai carcerati».

Nel 1993 nasce Piazza Grande, il primo giornale di strada in Italia. Con Roberto Morgantini tra i fondatori e a lungo vicepresidente dell’associazione.

«Era scritto e venduto dai senza fissa dimora, con un rapporto stretto con la popolazione. La prima uscita fu un successone: migliaia di copie di tiratura in pochi giorni. Era un modo per rendere più visibili queste persone».

Un omaggio a Lucio Dalla.

«Un grande amico, con cui ho fatto tanti progetti. Organizzavamo ogni anno un pranzo per 150 persone da Napoleone, che gestiva un ristorante, con grande generosità di Lucio. Ma la canzone Piazza Grande non è fine a se stessa, era proprio il modo di sentire di Lucio. Era davvero così lui» (Leggi anche Sotto le stelle di Lucio, Dalla canta Bologna e «Io, Lucio e quel cappuccino della pace alle 5 di mattina…»).

Lucio Dalla e Roberto Morgantini mentre sfoglia Piazza Grande

Che pranzo organizzavate?

«Io raccoglievo le persone da portare: dai nomadi ai senza fissa dimora. Siamo andati avanti fino al 2009, quando ha chiuso il ristorante. Poi ho insistito per ricominciare questa iniziativa al Diana, ristorante di via Indipendenza».

E ci è riuscito.

«Sì, uno o due anni dopo. E così, in gennaio, abbiamo cominciato a fare un pranzo all’anno per tutti questi ospiti. Insieme a personaggi come Gianni Morandi, Luca Carboni, Andrea Mingardi, Alessandro Bergonzoni, Stefano Benni. Ma anche il Bologna calcio, il prefetto, il questore…»

Così è nata l’idea delle Cucine Popolari?

«Mi rodeva una critica che ricevevo ed era vera: son capaci tutti di organizzare un pranzo all’anno, ma chi ha bisogno deve mangiare tutti i giorni! La spinta a creare le Cucine Popolari è nata anche da questo, ricollegando anche i ricordi di quello che succedeva da piccolo nella cucina di casa mia».

21 luglio 2015: nascono le Cucine Popolari. In un modo un po’ particolare…

«Avevamo i volontari, i cuochi, il locale in via Battiferro, al quartiere Navile. Ci serviva un fondo per dare garanzia di sostenibilità. E così la mia compagna Elvira e io abbiamo deciso di sposarci dopo 38 anni di convivenza. Chiedendo come regalo di nozze un aiuto per fondare le Cucine: abbiamo raccolto 70mila euro».

Dal primo locale non vi siete fermati…

«L’obiettivo era creare sei Cucine, una per ogni quartiere di Bologna. Ora sono tre: la seconda è nata a S.Donato nel 2017, la terza nel quartiere Porto-Saragozza nel 2018. A gennaio nascerà la quarta nel quartiere Savena. E sempre in gennaio ne aprirà una a Cesena, naturalmente su base volontaria».

Come funzionano le Cucine Popolari?

«La cucina è aperta: non stabiliamo noi chi può entrare, ma i servizi sociali del Comune o del quartiere e le parrocchie, che conoscono le situazioni di disagio. Tutto questo per fare in modo che vada chi ne ha bisogno. Però può andare chiunque a mangiare, lasciando un’offerta libera. Con l’obbligo di relazionarsi con gli altri, per far sì che le Cucine non diventino un ghetto per poveri. Anzi: prima del Covid disponevamo tavoli da sei, con un settimo “facilitatore” che obbligava gli altri a parlare. Un “rompiballe”, tecnicamente».

Non semplici mense per i poveri, quindi.

«Da noi è vietato mangiare e andare via senza interfacciarsi con gli altri. Così sono nate tante relazioni».

Il Covid ha rivoluzionato anche la vostra attività. Come fate?

«È cambiato tutto, oggi facciamo solo pasti da asporto. E abbiamo adottato molte attenzioni».

Quante persone ruotano attorno alle Cucine?

«Serviamo 500 pasti al giorno dal lunedì al venerdì. Abbiamo 250 volontari che ruotano e sorreggono il progetto: sono loro i protagonisti veri. C’è una voglia di fare sorprendente, anche a Natale e Capodanno».

Come vi finanziate?

«Andiamo avanti grazie alle donazioni. Siamo partiti dal basso come volontari e così vogliamo continuare. Quando i Metallica sono venuti a Bologna in concerto ci hanno donato un euro a biglietto: 30mila euro! È difficile perché i costi sono tanti. Ma vogliamo continuare perché ce n’è bisogno».

Gli ospiti delle Cucine chi sono? Più stranieri o più italiani?

«Più o meno 50% italiani e 50% stranieri. Sono situazioni segnalate di disagio. Ma la povertà non dev’essere vissuta come una colpa, perché il sistema in cui viviamo prevede inevitabilmente che si creino dei poveri. Solidarietà, però, non è carità. La carità è un gesto. La solidarietà invece ti deve restituire qualcosa. Speranza, dignità, fiducia, è uno scambio. Io dedico un po’ del mio tempo ma tu dedichi un po’ del tuo».

Non abbiamo parlato del “sospeso”. Che iniziative sono nate negli ultimi anni?

«Il “sospeso”, ripreso dal caffè sospeso napoletano, è un altro modo per aiutare chi ne ha bisogno. A Napoli è nato lasciando un caffè pagato (“sospeso”, appunto) per il prossimo che non può pagarselo. Qui a Bologna ho inaugurato il panino, il pranzo, il teatro, il calcio e il basket. Tutto sospeso. Si vede la felicità negli occhi di chi non era mai entrato in un posto del genere prima, come per esempio a teatro».

Aiutare gli ultimi è meritorio. Non pensa però che sia insufficiente? L’obiettivo dovrebbe essere lottare per cambiare le cose…

«Sacrosanto. Tra i pregi e i difetti della sinistra c’è proprio l’aver delegato la “carità”, visto che la povertà si combatte rivendicando dei diritti, alla Chiesa. Perdendo così il rapporto quotidiano con i poveri. Invece bisogna conquistare i diritti, sì, ma nel frattempo bisogna sostenere tutti i giorni chi ha bisogno. Servono entrambi gli aspetti».

Lo spirito di Roberto Morgantini dovrebbe diventare quello dell’Italia.

«Ma la speranza più grande è che un giorno non ci sia più bisogno delle Cucine. Sarebbe un sogno».