Femminismo comunitario in Abya Yala

Poche settimane dopo le celebrazioni per quella che erroneamente ricordiamo come “scoperta dell’America” – 12 ottobre 1492, 529 anni fa -, pubblichiamo un articolo che intende capovolgere gli schemi a cui siamo abituati. Così come Cristoforo Colombo, con le sue caravelle, in realtà non scoprì l’America (se non a uno sguardo puramente occidentale e coloniale), bensì la invase e colonizzò, così oggi non possiamo comprendere il continente latinoamericano se non partendo dalle sue origini. Dalle sue popolazioni originarie e dai culti che resistono al passare dei secoli. Dallo stretto rapporto che lega l’Abya Yala (antico nome che identifica l’attuale America Latina) alla natura. E dal ruolo primario esercitato dalle donne. Un femminismo comunitario, come emerge dal titolo, che insegna a rovesciare le prospettive, decolonizzando anche la nostra mentalità. Abbiamo scelto di pubblicarlo pochi giorni prima del Qhapaq raymi, una tradizione spirituale millenaria: il 21 dicembre, infatti, il mondo andino festeggia il solstizio d’estate, celebrando la continuità della vita (leggi anche qui). L’autrice di questo articolo ha voluto utilizzare parole nuove per invitarci a pensare in altri modi e come se fossimo in altri mondi (nella foto in evidenza, sullo sfondo il lago Titicaca in Perù).

Una manifestazione di donne indigene. Foto via Pixabay

Femminismo comunitario: cos’è il femminismo comunitario che ci parla di cosmo-visione/ di cui ci parla la cosmo-visione? Per me, la possibilità di ripensare la vita.

Un “cronista” meticcio contaminando, Huaman Poma de Ayala (1535 circa), raccontando la conquista dell’“Abya Yala” (America Latina), disse che il mondo era al rovescio. Forse è giunto il momento del “pachakutiq” (il tempo di cambiamenti: nella cosmo-visione andina si crede che arriverà il momento in cui l’armonia del passato ritornerà) e di cominciare ad armonizzare il “caos” a cui siamo giunti/e.

Ci sono altri modi di “sentipensare” il mondo, e uno di questi è la cosmo-visione andina con la sua lingua (il quechua), che per alcuni antropologi è la lingua più inclusiva al mondo. Ma ci vorrebbe un altro articolo per portare esempi eclatanti di come questa lingua sia portatrice di una cultura e una cosmo-visione che porta all’unità.

Una cosmo-visione che invita a mettere il nostro corpo in relazione alla terra, che invita l’essere a stare nel cosmo, nella “whipala” dove ogni colore ha un significato specifico di sanazione e recupero della relazione tra il territorio/cosmo e il nostro corpo.

La whipala, la bandiera dei popoli nativi latinoamericani

Il primo territorio per le donne femministe comunitarie è il nostro corpo. Il potere di decidere del nostro corpo-territorio rappresenta la possibilità di “liberarci” da tutte le manifestazioni di violenza che abbiamo interiorizzato e naturalizzato. È un atto non solo individuale ma politico che ci porta alla consapevolezza e alla sofferenza, la sofferenza di riconoscere quanto siamo ammalate e quanto continuiamo a esercitare/essere parte e sostenere/riprodurre un “modello di violenza”.

Abbiamo preso molte “teorie” come naturali e abbiamo preso la nostra natura come se fosse già scritta e come se l’unico modo per poter andare avanti fosse quello di “disumanizzare” gli/le altri/e. Abbiamo reso naturale la condizione per cui per poter “tutelare” i diritti di alcuni permettiamo tutte le manifestazioni di violenza verso altri.  

La cosmo-visione ci traghetta ad un nuovo livello di realtà, ad un nuovo frattale in cui c’è la possibilità di decostruire le condizioni “ideologiche- materialiste” che ci hanno colonizzato e ri-colonizzato, in cui la terra ci dà la possibilità di sanarci e salvarci dalla catastrofe verso cui stiamo andando, grazie ai sentimenti ancestrali di unità tra (uomo/donna) umani e natura e a quella memoria ancestrale che condividono tutte le comunità.  

Albero indigeno, di Maria Tschudi
Al di là della dualità  

Mi chiedo come siamo arrivati a sostenere tutti questi meccanismi di sofferenza per il nostro pianeta, per i nostri corpi/territori, e ritorno sempre alla dualità, alla separazione tra mente e sentimenti. Ritornando a Cartesio, mi chiedo quanto abbiamo tramandato nell’inconscio collettivo quella visione separatista e dualista della luce e dell’oscurità, della destra e della sinistra, e quanto abbiamo perso quello sviluppo integrale che ha caratterizzato le prime comunità; alcuni “tayta” parlano di cosmo-politica e della possibilità di riprenderci il diritto di “sentipensare” senza cercare di razionalizzare tutto e di screditare un pensiero perché nasce dal cuore.  

Per sciogliere un nodo, 
applicare resistenza non serve. 
Più forza si apporre nel tentativo di tirare i fili che compongono il nodo, più il nodo si stringe. 
Per sciogliere un nodo, 
Occorre la pazienza, 
di osservare con attenzione,  
la strada che il filo ha percorso per annodarsi, 
Occorre delicatezza, 
nel ripercorrere i passi all’indietro fino al punto di partenza. 
Per sciogliere un nodo, 
Occorre applicare con forza la gentilezza.

(Dinamica dei nodi di Emanuela Pacifici)

Anudando la tierra. Di Pancho Basurco, artista peruviano
L’armonizzazione è possibile?

Se in questi corpi/territori abbiamo la possibilità di sanarci, di rigenerarci, di rinascere sempre, se questi corpi non esercitano alcuna egemonia, controllo e dominio su altri corpi/territori, mi sono sempre chiesta come fossero possibili questi sentipensare se non esercitano egemonia. Da donna contaminata da “ideologie” occidentali, mi sono sempre chiesta come fosse possibile portare questi saperi ancestrali senza egemonizzare, senza “colonizzare altre menti” ma offrendo la possibilità di decolonizzarsi.

Forse la risposta l’ho avuta il 12 ottobre, il giorno in cui il pluri-universo ha incontrato la dualità cartesiana. Oggi in “Abya Yala” si continua a costruire in base al modello della “civilizzazione” giudeo-cristiana/dualità cartesiana. Nella possibilità di convivere in quella diversità senza il bisogno di egemonizzare e colonizzare credo che di aver trovato la mia risposta.

Riconoscere, integrare e trasformare, mi ha sussurrato il vento, per tessere per un “sumaq kausay” (buon vivere).