Memorie dalla Turchia – Muschi, licheni e barbabietole da zucchero

“Sono quelli i famosi alberi di pistacchio?”, mi chiede Silvia. Sì, sono quelli dalle fronde smeraldo. Non ci si può sbagliare. In fondo, oltre i confini della città sono l’unica visione ai lati della strada, qualunque direzione si prenda. Noi stiamo andando ad est, viaggiamo su un furgoncino a otto posti e l’autista ha pessimi gusti musicali. Mi estraneo da quel rumore osservando lo stesso paesaggio che ho visto per anni ogni volta che chiudevo gli occhi. Le strade si fanno più ripide, le curve più strette e i lati della strada sono ora cinti dalle pareti rocciose e bianche mentre ci avviciniamo alla meta, Halfeti. Ci sono già stato altre volte in passato, ma non avrei mai potuto lasciar trascorrere questa estate senza rivedere questo piccolo villaggio adagiato sulle rive del fiume Eufrate. Ricordo ancora la prima volta che misi piede qui, rendendo finalmente concreta quella nozione che la maestra mi aveva fatto imparare a memoria. Il Tigri e l’Eufrate, la mezzaluna fertile, gli ittiti. Tutti nomi così privi di contesto. Eppure eccola, quell’acqua così celebre che ha cullato le prime grandi civiltà del mondo. La vediamo dall’alto, mentre accostiamo in un piazzale coperto di ghiaia per fare una foto di gruppo.

Ricordo il tizio che aveva dato un passaggio a me e ai miei amici tre anni fa, si era fermato proprio qui per fare un selfie tutti insieme. Mahmoud e Waad si abbracciano mentre li inquadro e mi sorridono. Sullo sfondo, il giallo dell’erba che ricopre le montagne si butta nell’acqua, la cui superficie è tagliata dalla scia di una piccola imbarcazione. No, non sono un bravo fotografo e nemmeno un bravo scrittore, è che la bellezza di questo luogo parla da sé. Scendiamo lungo la strada che ci porta fino alla zona abitata, dove cerchiamo un posto per fare colazione. Il sole picchia forte su di noi, che cerchiamo riparo all’ombra degli alberi di fico che alleggeriscono l’aria sul ciglio della strada. Non il giorno più adatto per dimenticare i miei occhiali da sole, ma sicuramente il migliore per imbracciare una macchina fotografica. Le bancarelle che vendono cianfrusaglie per turisti sono il massimo della capitalizzazione di questo posto, quindi la contaminazione di questa bellezza è limitata e, tutto sommato, sopportabile. Proprio in una di quelle avevo comprato, tre anni fa, il cappello di paglia che tuttora mi accompagna per non bruciarmi al sole di mezzogiorno.

Siamo seduti intorno a un tavolo e ordiniamo colazione turca e gözleme ripieni di patate e formaggio. Arrivano fumanti e la tavola è già imbandita di marmellate, formaggi, cetrioli, pomodori, olive e pane non lievitato. Ne addento un pezzo ricoperto di olio e za’ater, una polvere color terra di Siena composta da troppi ingredienti perché possa elencarli. Mahmoud scherza sul nostro gruppo, dice che sembriamo una banda come quella de la Casa de Papel. Ci mancano solo i nomi. Io voglio essere Antep, ma per lui non dovremmo usare le città. Fioccano le proposte: nomi di auto, di telefoni, di presidenti del passato, di cartoni Disney. Continuiamo a ridere e i nostri bicchieri di tè si svuotano. Il bar è rialzato di qualche metro dalla strada e al posto del parapetto c’è un albero di fico, i cui frutti sono ancora troppo acerbi per essere raccolti. Io e l’autoelettosi leader della gang giochiamo a cercare qualche fico commestibile e ne afferriamo alcuni dalle fronde più alte, senza farci notare dalla cameriera. Come se non avessimo mangiato abbastanza durante quella colazione che per abbondanza e orario sembrava piuttosto un pranzo. Con lo stomaco pieno, seguo il gruppo, diretto alla banchina. Lungo la strada, sorpassiamo un edificio dalla facciata scrostata, come bruciata, una grossa casa di pietra con due entrate dagli archi circolari. È abbandonata e un cartello sul prato indica il suo nome passato, “Boutique Hotel”. Oltre quella vittima del tempo, prosegue un muro bianco di vernice recente, adornato dal disegno di un albero che ha cuori colorati per foglie e poi le parole di alcune poesie affiancano tanti ritratti dipinti con la vernice nera, che qualche idiota ha deciso di rovinare macchiandone gli occhi, proprio come sul ponte di via Stalingrado a Bologna.

Affittiamo un traghetto, dopo che Waad abbia cambiato idea più volte su quale preferisca. Con il motore si accende anche lo stereo e la musica tamarra rovina per la seconda volta un momento altrimenti perfetto di questa giornata. Silvia e Virginia si prendono per mano, improvvisando una danza turca insieme a Mahmoud e Waad. Gli altri restano a guardare e scattano qualche foto. Le montagne spigolose dai colori sub sahariani nascondono antichi insediamenti, caverne di cui vediamo in lontananza le aperture su una parete piatta e arancione. L’acqua è così limpida che rispecchia ogni cosa, duplicandola e creando una cartolina impressionista di quegli alberi che con tanto coraggio sporgono oltre le pareti rocciose per dissetarsi. Altri traghetti navigano come noi quel tratto del fiume e li sentiamo arrivare, annunciati dagli stereo altrettanto chiassosi. Oltrepassando una sporgenza, finalmente, lo rivedo: il minareto che si alza dall’acqua. La sua moschea è sommersa e solo il tetto è visibile. Ricordo quando, tre anni fa, nuotai sulla scia dei miei amici, Kais il giordano e Nahim, il gigante bosniaco. Cento metri in quest’acqua leggera e sentii i polmoni esplodere, fino a raggiungere quel tetto color sabbia, trenta centimetri sotto il pelo dell’acqua, e rischiai di scivolare per quanto fosse liscio. Purtroppo, stavolta il traghetto non sembra fermarsi e faccio in tempo solo a mettere le ragazze in posa per inquadrarle con quel minareto annacquato di sfondo. Il traghetto prosegue e l’alveo torna ad allargarsi, finché il nostro capitano non si ferma e ci dà dieci minuti per nuotare. Non me lo faccio ripetere e poso la mia macchina fotografica e il mio cappello di paglia sulla panca, coperti dai vestiti. Mahmoud conta fino a tre in arabo e mi lancio, finalmente, frantumando quello specchio di smeraldo. Resto un istante sott’acqua, riemergo e l’emozione che vorrei provare è inibita dalla temperatura. L’acqua è fredda, anzi no, è gelida e più che a sud della Turchia mi sento nell’artico. Ho lo stomaco pieno e temo una congestione, così mi muovo, non posso restare fermo e con poche bracciate giro intorno al traghetto per risalire. Sono rimasto in acqua per non più di un minuto e tutti mi guardano stupiti. Tutto quel chiasso per così poco. Allora li invito a mettere i piedi a mollo e li vedo inorridire. Già, niente bagno questa volta. Ho sempre detto di amare questo luogo tanto da voler essere sepolto qui, ma non mi sembra il caso di affrettare i tempi. Resto seduto sul bordo, accarezzando l’acqua con i talloni e le dita, mentre penso a quei ricordi che, semplicemente, non posso rivivere.

È il 6 agosto 2016. Abbiamo tentato di raggiungere il fiume scendendo dalle rocce, ma si è rivelato più difficile del previsto. Così abbiamo cambiato piano e siamo andati a cercare le verdure per il pranzo. Eravamo tutti molto affamati. Con pomodori, cetrioli, pane e un cocomero da dieci chili, siamo tornati sulla via che costeggia il fiume, per poi attraversare uno splendido ponte di legno, il genere di ponte basculante che si vede nei film di avventura, ma apparentemente più sicuro. Sulla riva opposta, abbiamo camminato in salita lungo il fianco della collina. Il sole era così caldo da bruciare, ma non mi importava, ero felice e con una mano scattavo foto ad ogni cosa, mentre con l’altra reggevo il cocomero. Le pareti rocciose erano bianche con striature gialle, tali da renderle simili ad un tessuto mosso. L’acqua brillava ed era invitante come nemmeno nelle oasi di un film verrebbe mostrata. Dopo circa mezz’ora di cammino ci siamo fermati e abbiamo scelto un piccolo spazio come campo base. Non una gran scelta, a dire il vero. Abbiamo pranzato tutti insieme in modo molto spartano. Nahim ha usato il suo coltello a serramanico per tagliare il pane e le verdure. Ognuno mangiava con le mani, la situazione richiedeva un certo spirito di adattamento. Sono corsi tutti a farsi un bagno, subito dopo, tranne me. Ho preferito leggere il mio libro per un’oretta. Dopo di che, li ho raggiunti. Si erano spostati di circa cento metri, trovando un posto per immergersi decisamente più comodo e meno ripido del primo. Un passo alla volta, tentavo di non scivolare nelle rocce della riva che sottacqua avanzavano per circa un metro. Una volta trovato l’equilibrio, mi sono lanciato. L’acqua era fresca e leggera, impalpabile. Il blu cristallo in cui ero immerso era diverso da qualunque altro fiume, lago o mare in cui avessi nuotato. Con qualche bracciata a stile libero sono arrivato sulla piattaforma di cemento dove le due volontaria italiane, Anna ed Emma, prendevano il sole. Da lì, Kais e Nahim si tuffavano a ripetizione. In lontananza, su una grossa roccia a riva, sedeva Ricardo insieme a Svetlana. Anche Zoe era sulla riva, in piedi sui sassi bagnati e le facevo gesto di raggiungermi. Intanto, il turco Aytaҁ raccoglieva fichi da un albero che sporgeva sul fiume e li lanciava ai due tuffatori, che in buona parte non riuscivano ad afferrarli. Zoe, che poco dopo sarebbe diventata la mia ragazza, nuotava intorno alla piattaforma, invitandomi a scendere in acqua. Io mi godevo il sole e il vento che si scontravano sulla mia pelle e guardavo quella massa di acqua lucida che scorreva fra le rocce gialle e rosse delle colline, cosparse di arbusti verdi come smeraldi. Un salto, ed ecco che il rumore del mio corpo che si fa breccia in quella superficie perfetta rompe la quiete del nostro eden. Giocavamo a spruzzarci, ridendo come bambini. Il suono del vento era una melodia che mi cullava mentre fendevo l’acqua nuotando a dorso. Risalito sulla piattaforma, ha iniziato a piovere. Pioveva a gocce grandi e pesanti, come grandine. D’improvviso si era alzato un vento forte e caldo e con il fresco della pioggia scatenava un misto di sensi mai provato. In pochi istanti era comparsa una nube così grande da oscurare la collina che avevamo percorso per arrivare lì. All’improvviso, un enorme fulmine ha saettato dal cielo. Purtroppo, proprio in quell’istante ero voltato nel verso sbagliato, ma l’ho come visto dipinto di riflesso sui volti dei miei compagni di viaggio. Il tuono che l’ha seguito è stato terribile, potente come un terremoto. Poi i lampi e dopo pochi minuti un arcobaleno di proporzioni colossali si proiettava sulla nube per venirci incontro. Ero entusiasta. In piedi sulla piattaforma e a braccia aperte, accoglievo la vita di quella meraviglia della natura che mi passava attraverso. Mangiavo i fichi lanciati da Aytaҁ e contemplavo la magnificenza che mi circondava, con la consapevolezza di non essere mai stato così felice. In lontananza, sulla grande roccia a riva, Ricardo e Svetlana stavano cercando riparo. Noi restavamo sulla piattaforma, sperando che la nube con l’arcobaleno ci arrivasse addosso, ma non è successo. Lo spettro dei colori si è presto dissolto con l’allontanarsi delle nubi. Tornati a riva, abbiamo spostato i nostri zaini sotto l’albero di fico. Kais si era arrampicato sui rami dell’albero che davano sullo strapiombo, al di là della collina. Lo ammiravo per la sua forza e il suo coraggio. Da solo ha riempito una sporta di fichi maturi. Una volta sceso lui, l’ho fatto io, puntando ai rami più alti. Ne ho presi alcuni molto grandi, completando il bottino. Divisi con gli altri, restavamo seduti, inebetiti da tutta quella bellezza. Con lo stomaco pieno di fichi mi sono buttato di nuovo. Sulla piattaforma, ho chiesto a Svetlana di filmare il mio tuffo, sapendo però che un semplice video non potrà farmi rivivere quella sensazione. Mentre mi godevo il mio nirvana personale, da dietro gli alberi è giunto un suono forte, simile al ragliare lamentoso di un asino. Da lì sono usciti due muli condotti da un uomo anziano. Uno era bianco a macchie. L’altro, più piccolo, era marrone. Ho nuotato di fretta fino a riva per vederli da vicino e mi sono ferito ad una gamba arrampicandomi sui sassi del fondale. Il vecchio mi ha permesso di fotografarlo. Uno scatto da incorniciare. Ci siamo poi avviati per tornare indietro, discendendo la collina. Da un albero ho preso due melograni, grandi e gialli. In prossimità del ponte, un uomo ci ha detto di fermarci e di attraversarlo una coppia alla volta. Doveva essersi rotto nel pomeriggio. Sceso dall’altra parte, Svetlana ha spiegato che non avremo luce, questa notte. L’enorme fulmine caduto poco più di un’ora prima doveva aver fatto saltare le centraline. A quanto pare è stato proprio quello a ridurre il ponte in quello stato.

È il 24 agosto del 2019 e i piedi dei miei compagni di avventura sono diventati bianchi per il freddo quando li estraggono dall’acqua. Il capitano riparte ed io mi sistemo a prua per asciugarmi. Sul parapetto sventolano due bandiere della Turchia e si calmano solo quando il traghetto si ferma a riva. Scendiamo alla ricerca di qualcosa da bere e troviamo un negozietto che vende alcolici. Non bevo una birra da quasi due mesi e quello che provo è qualcosa di più del disappunto quando al primo sorso la trovo calda. Camminiamo su quel ponte distrutto dal fulmine tre anni fa. Ora è integro e sicuro, nonché affiancato da uno più basso in metallo, che non avevo mai visto. Beviamo seduti sull’erba, di fronte alle case arroccate sull’altra sponda. Dovrei lasciare tutto e trasferirmi qui. Neppure quella birra calda riesce a rovinare l’atmosfera di pace che vivo in questo attimo. Tornerò, questa non può essere l’ultima volta. Sbaglio sempre nel cercare di costruire il ricordo perfetto da conservare, specialmente quando la prima volta fu così intensa. Non dovrei prendermela se non ho potuto nuotare quanto avrei voluto, eppure la voce dei miei amici viene sovrastata dalla mia fantasia che mi vede di nuovo ad Halfeti, magari fra un anno. Forse tornerò in Turchia soltanto per venire qui. La ragione mi dice che, finito questo progetto, dovrei andare avanti con la mia vita, ma so bene che non potrò mai distaccarmi del tutto da questo paese, da questa mia casa. Sono Osman di Gaziantep e questo il tempo non potrà cambiarlo.