Se volete aiutare Cuba togliete l’embargo

Negli ultimi giorni siamo stati invasi da notizie di presunte rivolte di massa a Cuba contro il regime. Non dovrebbe sorprendere, visto che tutto quello che succede nella Perla dei Caraibi ottiene un risalto mediatico molto superiore a ciò che non di rado avviene in ogni angolo del pianeta. Proteste, manifestazioni, grida di malcontento. Ma anche saccheggi, arresti e violenze. Peccato, però, che la realtà sia un po’ diversa.

Nessuna rivolta di massa. In varie parti dell’isola sono esplosi focolai di violente proteste antigovernative (si parla di almeno un morto, sempre troppo e da condannare senza dubbi), ma tutt’altro che generalizzate. Tanto è vero che immediatamente sono scattate contro-manifestazioni a favore della Rivoluzione e della “continuidad” socialista (qui un esempio dalla città di Palma Soriano, tratto dalla pagina Facebook LatinoAmerica, qui un altro esempio dall’Avana, tratto da TeleSur).

La premessa era d’obbligo, dato che qui in Europa si è avuta la percezione che il popolo cubano stesse per ribellarsi concretamente alla “dittatura”.

La battaglia delle strade

Aggiungiamo due elementi. Il primo riguarda il ruolo del governo e in particolare del presidente Miguel Díaz-Canel, sceso in strada personalmente per monitorare la situazione e fronteggiare la protesta. Ecco, è vero che il presidente ha invitato i «rivoluzionari» a scendere per le strade, difendendo la Rivoluzione («L’ordine di combattere è stato dato»). Un segnale di debolezza, per molti. Ma è anche vero che la chiamata alla presa delle calles serviva a dimostrare che la gente di Cuba non ha tradito i principi conquistati dai barbudos, oggi portati avanti tra mille difficoltà dagli eredi di chi la Rivoluzione l’ha fatta veramente (la fine dei Castro al governo è di solo tre mesi fa).

Il presidente di Cuba Miguel Díaz-Canel a San Antonio de los Baños, epicentro iniziale dei disordini. Foto da Granma
Interferenze

Il secondo elemento riguarda il ruolo giocato dall’esterno. Non è un segreto, infatti, che gli account da cui sono stati generati gli hashtag #SOSCuba o #SOSMatanzas (la provincia più colpita dal Covid-19) – che tuttora stanno spopolando in tutto il mondo – provenissero dalla Spagna. Milioni di tweet generati automaticamente e fatti rimbalzare come se provenissero da Cuba. Così come non è un segreto che la chiamata alla rivolta fosse stata preparata dai blogger, “influencer” e media fuori da Cuba, in particolare da Miami, patria diletta degli esuli cubani anti-socialisti più sfegatati (e non a caso bacino elettorale privilegiato del Partito Repubblicano statunitense).

Nuovi metodi, vecchi obiettivi

Foto manipolate, notizie ingigantite, appelli capziosi e artisti arruolati come grimaldelli per demolire l’esperienza cubana post-rivoluzionaria, chiodo fisso per il potente vicino a stelle e strisce: la metodologia vista nelle ultime ore risponde alle stesse logiche di decenni fa, quando per cambiare regime si tentavano assalti (falliti) con mercenari “controrivoluzionari”.

Cambiano i tempi e gli strumenti, non gli obiettivi. Anche se non tutti sembrano adeguarsi al nuovo modus operandi: ne è un esempio il sindaco di Miami Francis Suarez, che, in collegamento televisivo, ha invocato apertamente bombardamenti e un’invasione militare statunitense ai danni di Cuba. Opzione caldeggiata da molti dei più ferventi agitatori delle rivolte di questi giorni. Ultimi romantici.

Piccolo inciso: tra le principali fonti di rivolta anti-socialista c’è la canzone Patria y vida di due rapper cubani, in collaborazione con altri musicisti stanziati in Florida. Un successo da milioni di visualizzazioni, con una lampante parafrasi del motto ‘Patria o muerte‘ di stampo rivoluzionario. Alcuni di loro militano nel Movimiento San Isidro, da tempo attivo contro il regime e subito supportato dal Dipartimento di Stato Usa.

Né paradiso terrestre né gulag tropicale

Ecco. Riportare gli avvenimenti degli ultimi giorni alla giusta dimensione è necessario per capire cosa realmente bolle nell’isola, a torto considerata dagli opposti estremismi un paradiso terrestre senza macchia o un gulag tropicale (come rilevano l’inimitabile Gianni Minà e il professor Gennaro Carotenuto).

Manifestazione all’Avana contro l’embargo di qualche mese fa. Foto da Cuba Salva

Detto questo – e ricordato il valore anche simbolico di Cuba per quello che rappresenta agli occhi statunitensi, soprattutto in un contesto in continua fibrillazione come l’America Latina – si intende con ciò negare l’esistenza di un dissenso a Cuba? Di malcontento? Di problemi? Niente affatto. Anzi.

Pandemia, turismo a picco e sanzioni Usa

Inutile negare che la situazione a Cuba, di questi tempi, sia particolarmente difficile. Estremamente deficitaria per buona parte della popolazione, stremata dalle conseguenze socio-economiche della pandemia, che ha di fatto azzerato il turismo, di grande importanza per l’economia dell’isola. Scarsità di materie prime, code e prezzi alle stelle, insieme a oggettive impossibilità di accedere al credito nascono da un mix di fattori, non ultimo l’ormai sessantennale embargo imposto dagli Stati Uniti (si torna sempre lì).

Nonostante le aperture di Barack Obama – che pure non è riuscito a eliminare il bloqueo – le sanzioni non solo sono rimaste attive, ma sono addirittura state rafforzate da ulteriori 243 misure restrittive adottate da Donald Trump. Tra queste, confermate in piena pandemia dal nuovo presidente Joe Biden, figurano sospensioni e limitazioni alle rimesse (fonte importante di entrate per i cubani) e il divieto di inviare denaro dall’estero attraverso la società Western Union.

Ma cos’è davvero il bloqueo, che tanto fa discutere? Considerato dagli oppositori del regime cubano una «scusa» per nascondere le proprie inefficienze, l’embargo in realtà è stato svariate volte condannato anche dall’Onu attraverso decine di risoluzioni. L’ultima delle quali meno di un mese fa: 184 voti favorevoli, due contrari (Usa e Israele), tre astenuti (Colombia, Ucraina, Emirati Arabi Uniti).

La Cuba pre-rivoluzionaria

Fin dalla sua indipendenza, Cuba ha costituito una sorta di protettorato degli Stati Uniti. L’emendamento Platt, in vigore dal 1902 al 1934, obbligava il governo cubano a formulare la propria politica estera in accordo con gli Stati Uniti, che potevano intervenire direttamente sull’isola se ritenevano in pericolo «l’indipendenza cubana o la garanzia del rispetto della vita, della proprietà e delle libertà individuali». Cosa che successe per ben tre volte (1906, 1917, 1920).

Nel 1952 ci fu un colpo di stato che sfociò nella dittatura di Fulgencio Batista, un generale vicino a Washington. In questo periodo Cuba divenne la capitale del gioco d’azzardo e della prostituzione, la corruzione dilagò e aumentò il potere della mafia. Parallelamente, la già grande influenza economica e finanziaria degli Stati Uniti crebbe ulteriormente, arrivando a esercitare un controllo quasi totale sulle principali industrie dell’isola. Fu in questo contesto che scoppiò la rivoluzione che portò Fidel Castro al potere nel 1959.

Nazionalizzazioni e rottura con gli Usa: l’inizio dell’embargo

1960: la Casa Bianca emanò un primo decreto che ridusse del 95% le importazioni di zucchero cubano, la principale fonte di sostentamento dell’isola. Il giorno stesso L’Avana rispose con la nazionalizzazione di tutte le proprietà statunitensi. A questo punto Washington ruppe le relazioni diplomatiche, decretò il blocco delle esportazioni e delle importazioni e vietò ai propri cittadini di visitare l’isola senza uno specifico permesso. Era l’inizio dell’embargo.

Crollo dell’Urss: il periodo especial e la legge Torricelli

Fino alla Rivoluzione l’economia cubana dipendeva in larga parte dal commercio con gli Stati Uniti, ai quali L’Avana vendeva il proprio zucchero in cambio dei prodotti di cui necessitava. Dopo l’imposizione dell’embargo l’Unione Sovietica salvò Cuba dall’isolamento e divenne il suo primo e quasi unico partner commerciale (fino al 1989 solo il 15% del commercio estero proveniva da Paesi non allineati a Mosca).

La dissoluzione del blocco sovietico provocò dunque una gravissima crisi economica che causò una caduta del PIL del 37% nel periodo 1989-1994. In questa fase, nota come periodo especial, le scorte si esaurirono in pochi giorni, molte attività furono chiuse o convertite e la popolazione venne colpita duramente dalla scarsità di beni importati, a partire da alimenti, medicine e altri generi di prima necessità.

Eppure, nonostante la fine della Guerra Fredda, gli Usa non mollarono la presa su Cuba, ossessionati dal socialismo a ogni latitudine: nel 1992 venne approvato il Cuban Democracy Act, o legge Torricelli, che tra le altre cose proibì alle società sussidiarie statunitensi stanziate all’estero di avere transazioni con Cuba, vietò a ogni nave che avesse attraccato a Cuba di entrare in un porto degli Stati Uniti per 180 giorni, mantenne un severo limite alle rimesse dei cubani residenti negli Stati Uniti e autorizzò il presidente a proibire assistenza economica, militare o rinegoziazioni del debito a ogni Paese che avesse offerto assistenza a Cuba.

La legge Helms-Burton

Ma la legge più contestata nell’ambito dell’embargo contro Cuba è senza dubbio la legge Helms-Burton, extraterritoriale e retroattiva, nonché divisa in quattro titoli.

Il Titolo I codifica tutte le restrizioni dell’embargo in vigore al primo marzo 1996, afferma che gli Stati Uniti si opporranno alla partecipazione di Cuba nelle organizzazioni internazionali e ridurranno il supporto finanziario a quelle organizzazioni che forniscono assistenza economica all’isola.

Il Titolo II stabilisce una serie di condizioni che devono essere soddisfatte da Cuba prima che si possano riaprire i negoziati con qualsiasi futuro governo dell’isola. Il rispetto di queste condizioni comporterebbe di fatto la fine del modello politico ed economico portato avanti dalla Rivoluzione. È chiaro dunque che questo titolo costituisce una provocazione e vanifica ogni tentativo di riappacificazione tra Washington e l’Avana.

Il Titolo III istituisce la possibilità per i cittadini statunitensi ai quali furono espropriate le proprietà dal governo cubano di citare in giudizio, presso i tribunali federali, le imprese o gli individui che «trafficano» in tali proprietà.

Questo è il titolo più contestato della legge, giacché prevede un’applicazione extra-territoriale del diritto nazionale nordamericano, in netto contrasto con il diritto internazionale. Non a caso lo stesso Titolo III conferisce al presidente la facoltà di sospenderlo ogniqualvolta la sua applicazione sia necessaria per salvaguardare gli interessi nazionali; facoltà costantemente esercitata da tutti i presidenti, almeno fino a oggi.

Il Titolo IV, infine, decreta l’obbligo per il segretario di Stato di negare il rilascio del visto a chiunque «traffichi» nelle proprietà confiscate ai cittadini statunitensi.

Conseguenze pratiche
Carovana contro il bloqueo a Cuba pochi mesi fa. Foto da Cuba Salva

L’impossibilità di commerciare con il potente vicino e l’azione di pressione che quest’ultimo compie sugli altri Paesi della comunità internazionale affinché non facciano affari con Cuba si traduce in gravi difficoltà d’approvvigionamento e in un aumento considerevole dei costi di trasporto e di intermediazione.

La paura di possibili ritorsioni su chiunque scelga di avere rapporti economici con l’isola rende più complicato attrarre investimenti esteri e incide negativamente sulla capacità dello stato e delle imprese cubane di finanziarsi sui mercati internazionali, aumentando considerevolmente la loro spesa per interessi.

Le conseguenze si riflettono su tutti i settori dell’economia, compresi salute e istruzione, dove Cuba è un’eccellenza mondiale (chi non ricorda le due brigate mediche accorse in Italia contro il coronavirus? E i vaccini prodotti in autonomia?). Ciò si traduce nell’impossibilità di importare medicinali e forniture sanitarie. In molte scuole manca il materiale didattico o è di scarsa qualità. Il settore alimentare ha problemi nel reperimento di sementi e mangimi sul mercato internazionale. Il settore dei trasporti registra ingenti perdite dovute al divieto di accesso nei porti degli Stati Uniti alle navi che trasportano merci o equipaggi cubani. Il settore delle telecomunicazioni è in difficoltà a causa dell’impossibilità di accedere ad apparecchiature, piattaforme e servizi informatici di aziende nordamericane.

Eppure, Cuba resta in piedi

Tali ostacoli metterebbero in ginocchio qualunque paese. Eppure Cuba, nonostante il cappio del bloqueo, ha garantito per decenni servizi sociali che in gran parte non solo dei Caraibi o dell’America centrale, ma di tutta l’America Latina (e non solo) appaiono oasi irraggiungibili. Bisogna ricordare che Cuba svetta nelle classifiche internazionali sull’aspettativa di vita, sulla mortalità infantile, sul tasso di alfabetizzazione e in generale nell’indice di sviluppo umano.

Carovana contro il bloqueo, alcuni mesi fa. Foto da Cuba Salva
Democrazia liberale e paradossi ipocriti

Come se non bastasse, lo scorso 11 gennaio Cuba è stata inserita nell’elenco degli Stati che sponsorizzano il terrorismo. Ecco perché gli SOS lanciati in questi giorni suonano quanto meno bizzarri, se non del tutto patetici e strumentali. D’altronde, sarebbe da sprovveduti non evidenziare l’enorme ipocrisia di trattamento tra l’isola caraibica e tanti altri paesi, con popolazione maggiore e problemi enormemente maggiori, oltretutto senza embargo.

La stessa logica della “dittatura” da demolire pecca alla base di genuinità: se così davvero fosse, perché non agire contro tutti i paesi non allineati al modello delle democrazie liberali? O ancora: ricordando gli infelici tentativi di “esportazione della democrazia”, perché dovremmo credere alla bontà di un unico modello, quello appunto delle democrazie liberali? Non è forse una “dittatura” anche il voler imporre uno stesso modello (il proprio) in ogni dove? Ecco. Chi scrive sicuramente non aderirà alle campagne social dei presunti difensori dei diritti umani a Cuba.

*Si ringrazia Sebastiano Coenda per la collaborazione