Battiato nasce a Jonia

Franco_Battiato

Jonia non esiste, anzi non è mai esistita. È stata un’unità amministrativa creata nel 1939 unendo in maniera funzionale i due comuni di Giarre e Riposto, e conosciuta solo per meno di tre anni, tra 1942 e 1945, come Jonia. L’idea di base era ottima, ma i cittadini delle due città non si sopportavano e quindi, appena conclusa la guerra, chiesero il “divorzio”. Battiato nasce dunque da un’ottima e impossibile idea, subito svanita. Battiato stesso è stato una magnifica idea.

Molti dei necrologi che si sono susseguiti su Battiato in questa settimana hanno un tratto in comune sorprendente. Tantissimi tra coloro che ne hanno scritto, nati tra gli anni ’70 e primi 2000, hanno ammesso di aver conosciuto, amato e assorbito l’opera del genio di Jonia da giovanissimi, spesso in età pre-scolare.
Questo è paradossale, se consideriamo la complessità dei testi e delle musiche dell’autore siciliano. Ma Battiato è riuscito a infiltrarsi nelle nostre anime a livello sottile e subliminale, attingendo al sostrato primigenio e pre-razionale della natura umana.
Battiato non lo si capisce, ma lo si intuisce. È cinema d’avanguardia messo in musica.

L’ascoltatore di Battiato deve sapersi disfare della propria pretesa di critico, spogliarsi di sovrastrutture mentali e intellettuali, e proprio in questo esercizio i bambini partono avvantaggiati.
Ma dato che si cresce e, ahinoi, siamo costretti ad abbandonare l’infanzia e quella forma di bambini nella quale Battiato stesso riconosceva un essere millenario (come confidava all’amica Elisabetta Sgarbi), il genio di Jonia ha spesso fatto ricorso all’esotico per aiutare i propri ascoltatori a predisporsi all’ascolto. Il totalmente altro ci strania, ci illumina sulla sensibilità che è comune a tutte le culture, e allo stesso tempo coglie la nostra intimità più vulnerabile, ci commuove e ci riconcilia

Le sue origini

Il primo esotismo col quale Battiato dovette fare i conti fu quello della propria Sicilia, da sempre terra decentrata rispetto all’italiano continentale, la cui storia ci parla di sovrapposizioni e convivenze di culture e lingue diversissime tra loro.
Dopo averla abbandonata a diciannove anni, Battiato si trovò a fare i conti con le proprie origini siciliane per motivi lavorativi. Al Club 64, dove si esibiva con Jannacci, Pozzetto e Lauzi, Battiato eseguiva canzoni finto-etniche siciliane, in una contraffazione assolutamente autentica che sarebbe diventata una costante della sua produzione artistica.
Cominciò così, un po’ per necessità e un po’ per divertimento, l’avventura attraverso le culture e i tempi del più grande cantautore del nostro paese.

Le contaminazioni

Nei primi anni ’70, dopo un periodo di riconosciute difficoltà interiori e materiali, inizia la ricerca spirituale che lo porterà ad arricchire di riferimenti sempre più vari la propria produzione. In una intervista del 2015 al giornalista Fausto Pellegrini, Battiato elencava i propri quattro momenti di ricerca principali: i mistici indiani, il sufismo, Gurdjieff, per finire con il buddismo tibetano.
In effetti, il primo LP di Battiato, Fetus, composto dopo aver letto “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley e le opere di Paramahansa Yogananda, viene pubblicato nel gennaio 1972, all’inizio del percorso di approfondimento dei mistici indiani.

È con il terzo album, “Sulle corde di Aries”, che Battiato prenderà il volo, abbracciando la musica sperimentale più estrema (Reich, Glass, Stockhausen) e avvicinandosi al collettivo Aktuala, che aveva come scopo l’indagine della musica popolare africana e asiatica. Come strumenti, al famoso sintetizzatore VCS3 (di cui fu il primo committente assieme ai Pink Floyd), si aggiungono la mandola e il kalimba. Nei testi convivono il ricordo della Sicilia, ormai terra di ricordi in Sequenze e Frequenze (La maestra in estate ci dava/ ripetizioni nel suo cortile/ Io stavo sempre seduto/ Sopra un muretto a guardare il mare/ Ogni tanto passava una nave), e immagini di paesi lontani, come in Aria di rivoluzione (Quell’autista in Abissinia/ Guidava il camion/ Fino a tardi/ E poi a notte fonda/ Si riunivano). Il brano strumentale che chiude l’album è “Da Oriente a Occidente”, e come suggerisce il nome ci troviamo catapultati in una atmosfera mediterranea accarezzata dalle mandole.

In M.lle Le “Gladiator” del 1975 Battiato utilizza l’organo della cattedrale di Monreale per eseguire pezzi come Orient Effects, dove il riferimento all’oriente e ai paesaggi mediorientali si fa vivido e presente.
Il suo ultimo album sperimentale, “L’Egitto prima delle sabbie” del 1978, è un riferimento all’opera di Gurdjieff, in particolare a un aneddoto contenuto nel libro “Incontri con uomini straordinari”.
La passione di Battiato per l’oriente dilaga proprio alla fine degli anni ’70, allorché si dedica allo studio della lingua araba, presso l’istituto di cultura araba di Milano, e si lancia in una serie di viaggi in medio oriente, sulle orme dello stesso Gurdjieff.
Percorre le “strade dell’est”, giungendo in treno fino alla Turchia, e poi ancora fino all’Iran, dove dà prova delle proprie doti sperimentali in un festival locale di musica alternativa (facendo fuggire i propri ascoltatori).

Pop

Si arriva quindi alla grande svolta pop, all’Era del cinghiale bianco, dove la poetica di Battiato raggiunge già la propria maturità in un pastiche ricercato e post-postmoderno tangente alla new wave e alla world music. La figura retorica preferita da Battiato è l’accumulazione che produce nell’ascoltatore una sensazione di straniamento estremo e in cui velocemente vengono evocate immagini e cartoline remotissime tra loro. L’arte di Battiato si rivela così non solo nella scelta delle singole immagini ma nell’accostamento tra esse, ardito, inedito.
Nel 1979 Battiato ha composto un proprio personale pantheon di riferimenti culturali e religiosi, e si muove agilmente tra le opere di Gurdjieff e di Guenon, attingendo alla cultura araba come a quella indiana, rubando immagini dal sufismo e dall’Europa orientale.

L’album è un ipotetico viaggio nello spazio e nel tempo che emerge sin dalla copertina realizzata da Francesco Messina, un rigoglio di simboli esoterici e orientali, piramidi ed elefanti, mentre sul retro spunta una piccola foto di Battiato da bambino, seduto accanto a una palma con una chitarrina in mano, esotico nell’esotico.
La title track ci trasporta negli alberghi di Tunisi, ci fa annusare l’odore di sigarette turche, ci fa dialogare con gli studenti di Damasco, mentre Battiato gorgheggia in arabo negli intermezzi.
Il cinghiale bianco è quello citato da Renè Guenon, presente nella mitologia celtica: al Mediterraneo si aggiunge pertanto la suggestione nordeuropea.
Nelle canzoni che completano l’album si susseguono altre suggestioni, nuovi mondi lontanissimi. In “Magic Shop” ci parla dei Raga, composizioni musicali tipiche del subcontinente indiano, per poi dare un giudizio stilistico sulle piramidi d’Egitto (carine). Ma la divagazione culturale si fa ossessiva ed estrema nella canzone “Strade dell’Est”, che ancora una volta ci racconta della fascinazione subita dal nostro nei confronti del lontano e vicino oriente.

Per Battiato l’oriente inizia dall’Albania, per arrivare a nord fino alla Siberia. Planiamo con i mercanti indiani tra Russia e Cina, per poi immedesimarci nel contemporaneo (morì infatti nel 1979) Mustafà Barzani, leader e simbolo del movimento indipendentista curdo e guida del Partito Democratico del Kurdistan. E poi ancora siamo con principesse rinchiuse in castelli, in città sperdute in cui si parla e parlerà per sempre in persiano, per poi ritornare all’attualità con un approdo a Leningrado (oggi). In quattro minuti e venti Battiato ha percorso decine di migliaia di chilometri, spaziando in tutto ciò che è compreso tra Trieste e Vladivostok.
“Il Re del mondo” è una celebrazione del volume omonimo pubblicato nel 1927 da Renè Guenon, nume tutelare del long play nella sua interezza e ci riporta nuovamente nelle vastità più remote dell’Asia. Nel libro Guenon narra del “Re del mondo”, un essere che si trova a capo di un centro iniziatico al centro dell’Asia, che conosce i pensieri di tutti gli abitanti del pianeta, favorendo coloro che sono portatori di idee a lui gradite.

Nel brano “Pasqua Etiope” siamo invece nel regno del Negus, e Battiato si diletta a cantare in greco antico, mentre “Luna Indiana” è una traccia strumentale tappezzata di gorgheggi arabeggianti, accompagnati da due pianoforti e dal violino del grande Giusto Pio.
Chiude l’album, senza alcuna soluzione di continuità rispetto al resto dell’album, “Stranizza d’Amuri”, dove l’esotico è sì la lingua e l’atmosfera musicale siciliana, ma soprattutto il magico operare dei ricordi d’infanzia, i mosconi sul letame nel vallone di Scammacca, la caccia alle lucertole, il vagone della Circumetnea, i saggi ginnici, il Nabucco e la scuola che sta finendo.

Viaggi nella musica

Infinite volte, negli anni successivi, Battiato ci ha condotto per mano attraverso mondi lontanissimi.
Siamo in Arabia, a San Pietroburgo, e a Venezia, che ci ricorda istintivamente Istanbul, nel 1980 con l’album Patriots.
Siamo con i profughi afgani, che si spostano dal confine nell’Iran, e con i pellerossa americani, nel 1981, con la Voce del Padrone. Cercando il nostro centro di gravità permanente siamo con una vecchia bretone, con i contrabbandieri macedoni e con i gesuiti euclidei alla corte degli imperatori cinesi, per le strade di Pechino.
Facciamo “Scalo a Grado”, nel 1982, con l’Arca di Noè. Nello stesso album, nella traccia “Clamori”, gravitiamo tra farfalle giapponesi, il quartiere nero di Harlem, Wallstreet, e siamo con i Sufi e i Mullah immobili nel Medio Oriente.

Con “Voglio vederti danzare”, sempre nello stesso album, i confini geografici dell’immaginativa battiatesca mettono in relazione culture tra loro distantissime e raggiungono la propria massima estensione. Siamo con le zingare del deserto e i loro candelabri in testa, a Bali (ma nei giorni di festa), con i dervisci ruotanti e con le danzatrice indiane di Kathakali. Siamo in Albania, da dove radio Tirana trasmette musiche balcaniche, e poi in Bulgaria con i danzatori sui carboni ardenti. Siamo dunque nell’Ulster, e poi nelle balere estive, con coppie anziane che danzano sui 7/8. Battiato cita poi i ritmi ossessivi dei riti tribali dei regni di sciamani e dei suonatori zingari ribelli. Infine, ritorniamo nella bassa Padana con le sue balere estive e le coppie anziane che ballano su valzer viennesi.

I riferimenti continueranno negli anni, innumerevoli e copiosi, e Battiato ci insegna a sentirci a casa presso qualsiasi cultura e mondo, vicini e lontani. Il suo approccio è post-postmoderno, un’originale e intima rielaborazione filtrata con una sensibilità genuina, probabilmente attinta da una innata capacità di osservazione sviluppata da piccolo. Il suo insegnamento è che la curiosità e l’intelligenza dell’uomo non devono e non possono vivere in un solo luogo e in un solo contesto culturale, in una indagine che però è affettuosamente consapevole delle proprie radici.

In “Veni l’autunnu”, dall’album del 1988 “Fisiognomica”, torna l’amata Sicilia con ricordi d’infanzia e il dialetto/lingua siciliana che però si tramuta nel finale in arabo, quasi a segnalare il saldarsi senza soluzione di continuità tra la mitica infanzia esotica e il mondo del Mediterraneo di lingua araba. In “Gommalacca”, del 1998, spicca il pezzo “Il ballo del potere”, dove ad essere citati sono i pigmei dell’Africa e gli aborigeni d’Australia. I primi si ritrovano per fumare tranquilli l’erba, mentre i secondi con un rito di fertilità si stendono sulla terra e vi lasciano il loro sperma. All’interno della canzone è anche un breve intermezzo in inglese sul Taijiquan, stile delle arti marziali cinesi che è anche una forma di meditazione (in movimento). L’elenco potrebbe proseguire, ma ci sono tre tappe fondamentali che possono essere brevemente citate, e che ci dicono molto della traiettoria battiatesca attraverso le culture.

1992: a pochi mesi dalla fine della prima guerra del golfo, Battiato tiene uno storico concerto a Baghdad, come parte dell’iniziativa umanitaria “Un ponte per Baghdad”. Franco esegue un canto della tradizione popolare irachena, Fogh in Nakhal, che poi verrà incluso nell’album dell’anno successivo “Caffè de la Paix”. Battiato è il primo artista internazionale a tornare a esibirsi sul suolo iracheno dalla fine della guerra, e tale iniziativa ebbe una vasta eco, tanto da essere trasmessa in mondovisione.

Esperimenti nelle altre arti

Nello stesso periodo, Battiato si dà alla pittura, prediligendo i ritratti naturalistici su sfondo dorato. Fu un processo doloroso, lungo, attraverso il quale il cantautore dovette lavorare su una propria cronica incapacità di raffigurare anche gli oggetti più semplici, come un bicchiere.
Dopo circa un anno d’infruttuosi tentativi, “un bel giorno all’improvviso la figura di un danzatore derviscio si materializzò sulla tela, nel modo giusto, nel modo che volevo. Fu una gioia immensa, anzi di più. Fu un orgasmo cosmico.” Lo stile, come i soggetti del cantautore, è orientaleggiante, con sfondi dorati e raffigurazioni ieratiche ispirati alla tradizione bizantina.

Infine, l’ultima fatica di Battiato in ambito cinematografico, che con un senso di compiutezza unica tratta della morte. “Attraversando il bardo” è un documentario del 2014, che vuole essere una riflessione sulla morte partendo dalle testimonianze di monaci buddisti tibetani, che Battiato ha imparato a conoscere sin dai primi anni ’80 (“Campane tibetane” è un pezzo del 1983 e segnala una attenzione precoce a questo filone spirituale). La frase “noi non siamo mai morti e non siamo mai nati” apre il documentario, dove figurano anche Stanislav Grof, psichiatra, il monaco Guidalberto Bormolini e il fisico Jack Sarfatti. Il “bardo” di cui si parla nel documentario è uno stadio intermedio tra la vita e la morte, trattato nel Bardo Thodol, il libro tibetano dei morti.

Chissà se Battiato lo sta ancora attraversando, in questo momento, o se è già approdato in quella destinazione fuori dal tempo e dallo spazio che ha da sempre osservato sui suoi orizzonti perduti, dove ogni tanto passava una nave

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