Non Sonosolocomplimenti: lo spazio sicuro che ridà voce alle donne

Dalla sua fondazione, nel marzo 2019, ha superato i 27mila followers su Instagram. Parliamo di Sonosolocomplimenti, il blog a cura di Martina Bellani e Antonietta Peluso che permette alle donne e ragazze vittime di abusi, molestie e catcalling di trovare finalmente il coraggio di raccontare la propria storia e di far sentire la propria voce.

Al sicuro da ogni giudizio, coperte dall’anonimato, coloro che si rivolgono al blog possono accedere a uno spazio sicuro dove poter denunciare un disagio a lungo nascosto anche ad amici, familiari, fidanzati. Perché?

Per rispondere a questa e ad altre domande, abbiamo chiesto supporto proprio ad Antonietta Peluso, community manager e sociologa, per cercare di fare la nostra parte nella difficile battaglia verso la parità di genere.

Antonietta Peluso, dal suo profilo Instagram @toniapeluso

Dalla sua creazione, Sonosolocomplimenti ha superato i 27mila followers. L’idea nata dalla volontà di condividere il disagio a seguito di un episodio di catcalling è diventata una vera e propria piattaforma di ascolto: secondo lei perché?

«Il fatto di raccontare storie attraverso le parole dirette delle vittime ha lasciato passare da subito un messaggio preciso: SonoSoloComplimenti è un luogo di ascolto, confronto e comprensione.

La nostra preparazione e gli ideali da cui muoviamo sono la base del progetto, ma la nostra voce non sovrasta mai quella di chi racconta. Chi ci segue lo percepisce e sa di essere in un luogo dove il giudizio è sospeso. Noi speriamo di dare gli strumenti per fronteggiare le situazioni ma non vogliamo creare psicosi».

Le testimonianze condivise trattano di molestie e veri e propri abusi: quale impatto emotivo hanno le storie che ricevete su di voi? Come vi approcciate alle segnalazioni e quale rapporto si instaura con chi decide di scrivervi?

«Leggere la mole di messaggi che ci arriva – più di cento storie a settimana – non è facile. Spesso sono storie ricche di dettagli o che vanno a toccare corde intime. Le leggiamo con attenzione, le analizziamo e diamo risposte individualizzate a ognuno instaurando spesso un dialogo continuo.

Il rischio è quello di immergersi così tanto nel progetto da essere assorbite, ma non possiamo rischiare di perdere la lucidità e fare passi falsi. Abbiamo imparato a porci in una condizione di ascolto attivo che dosi empatia e professionalità.

Se ci sono storie o situazioni che ci toccano in modo particolare ne parliamo tra di noi. C’è un dialogo continuo che ci permette di tenere la rotta».

Molto spesso, leggendo le testimonianze, la prima reazione è: “è successo anche a me“. Qual è secondo voi il senso di consapevolezza attuale sugli atti di sopruso ai quali vengono sottoposte le donne? Ci sono cose che vengono ancora percepite come “normali”, come cose che se sei donna devi subire? E c’è una differenza nelle generazioni nella percezione di questo?

«Pochi giorni fa si è creato un dibattito social a partire dalle stories di Aurora Ramazzotti su Instagram. Tra chi diceva che sono solo complimenti molte erano donne, soprattutto adulte. Non erano in malafede, solo non capivano.

Questa cosa non mi meraviglia: ho 30 anni, la mia generazione non è stata educata rispetto a molte tematiche che oggi invece emergono in tutta la loro irruenza. Spesso ci scrivono donne che raccontano di aver provato una sensazione di disagio in seguito a molestie ma di non averla saputa identificare.

Se non si parla, se non vi è una conoscenza di ciò che succede, può essere difficile rendersene conto. Le stesse ci ringraziano perché leggendoci hanno messo a fuoco il problema, magari riaprendo vecchie ferite che però possono finalmente essere pulite fino a guarire. Tra gli adolescenti o i ventenni c’è più consapevolezza anche se a volte questo si scontra con l’irruenza tipica di quell’età. Il rischio è che da battaglia per la libertà vada a creare psicosi e a inasprire vecchie fratture.

C’è un doppio divario: generazionale e di genere. Dobbiamo partire da questo, superare le divisioni in nome di una causa che riguarda tutti».

Dal profilo Instagram ufficiale @sonosolocomplimenti

Tante ragazze scrivono che quello che hanno raccontato non lo hanno mai detto a nessuno: la copertura fornita dall’anonimato è quindi ancora fondamentale. Perché? Paura del giudizio? Di sentirsi sempre sole e non capite da chi amano, come se fosse una colpa comunque loro?

«L’anonimato sicuramente fa da rete di protezione, alcune ce lo chiedono espressamente nonostante conoscano il format che già lo prevede, però non è forse il fattore decisivo. A fare la differenza è il fatto di trovarsi in un ambiente protetto in cui si ha la certezza di ricevere comprensione senza vedere reazioni viziate dalla conoscenza.

A volte subentra la paura di vedere la propria storia non capita. Non c’è solo chi ne parla con noi per la prima volta, ma anche chi aveva già provato a raccontare cosa fosse successo ma non avendo in cambio il supporto desiderato. Le reazioni altrui rischiano di ferire quanto, o anche più, della violenza subita.

Un’altra situazione possibile riguarda le molestie che avvengono in famiglia, raccontare a un genitore di aver subito molestie e abusi da parte di nonni, zii o parenti non è facile, subentra la paura di non essere creduti o anche il senso di colpa nell’andare a intaccare gli equilibri familiari.

Parlare con noi può essere più facile perché siamo estranei, ma non del tutto: sanno chi siamo e ci attribuiscono una conoscenza della tematica super partes e questo basta ad aprirsi con la certezza di non trovare mai in noi giudizio».

Uno dei pregi del progetto è aver risvegliato la consapevolezza maschile sul tema delle molestie: quale apporto possono dare gli uomini nell’abbattere il concetto di colpevolizzazione della vittima?

«Il nostro non è un progetto solo al femminile, gli uomini sono presenti in tutte le storie. Non sono solo quegli uomini che violentano, molestano, distruggono e non capiscono. Ci sono padri, fidanzati, amici che svolgono un ruolo importante nel processo di ricostruzione dopo una violenza. Ci sono gli sconosciuti che a volte intervengono.

Abbiamo raccolto storie di uomini, anche se la maggior parte di esse fa riferimento al mondo Lgbt+. Ho fatto questa disamina dell’universo maschile per dire una cosa precisa: gli uomini sono attori coprotagonisti nell’ambito della violenza di genere, parlare con loro, coinvolgerli, è necessario se miriamo a una rivoluzione culturale profonda. Oppure resta tutto in superficie, grida che non vengono accolte da nessuno».

Processo per stupro, andato in onda nel 1979, ha avuto il merito di portare alla luce le vessazioni a cui sono sottoposte le vittime di stupro. Da allora, sono passati 42 anni, in cui l’opinione pubblica sembra non essersi evoluta: ancora oggi, in risposta agli articoli che trattano di episodi di violenza, la maggior parte dei commenti si concentra sulla responsabilità della vittima. Che ruolo ha, secondo voi, la stampa e come potrebbe contribuire a modificare i preconcetti mentali ancora oggi insiti in una larga parte della popolazione italiana?

«Di Processo per stupro sconvolge la violenza con cui gli avvocati degli imputati facevano le loro arringhe piene di una retorica che vuole colpevolizzare la parte lesa, mettendo in dubbio la sua moralità.

Una ragazza di appena 18 anni descritta come una donna di facili costumi che si era prestata a un rapporto di gruppo in cambio di soldi. Una ragazza che da vittima diventa quasi imputata. Non le sembra di aver sentito lo stesso di recente?

Sono passati 42 anni e poco è cambiato, complice molto spesso una stampa che sminuisce e insinua sulla base di preconcetti e ragionamenti che per restare gentile definirei anacronistici. Certo c’è anche una stampa che inizia a interessarsi alle tematiche di genere mettendosi davvero a servizio di esse.

Quest’intervista è importante, sa. Lei sta facendo la sua parte nella strada verso il cambiamento».

Sonosolocomplimenti ha, soprattutto, il merito di dare voce alle vittime di catcalling, una tematica precedentemente sottovalutata. Da dove partire per modificarne la percezione da parte di chi, ancora, lo considera normale? Come educare gli uomini a rapportarsi correttamente con il genere femminile?

«Io partirei dal capire in che modo fischiare a una ragazza per strada possa portare loro giovamento. È un comportamento insensibile ma anche insensato.

Capisco che la prima reazione possa essere di rabbia, come avviene anche nel dibattito social. Io però sono una ricercatrice, parto da un esame della realtà per poi provare a cambiarla».

Da settembre 2020 avete dato vita a uno sportello di ascolto gratuito per le ragazze che vi scrivono: a quali altre iniziative vorreste dare vita e perché?

«Stiamo potenziando la parte di sensibilizzazione e divulgazione ma ci scontriamo con limiti strutturali, come ad esempio la difficoltà a reperire fondi, e limiti contestuali. La situazione storica che stiamo vivendo non aiuta.

Però siamo positive, abbiamo tanti progetti in cantiere, speriamo di vederli prendere vita presto».

La maggioranza degli episodi raccolti si riferiscono al mondo del lavoro, dove uomini in posizione di potere si arrogano il diritto di molestare le sottoposte, spesso molto più giovani: perché il mondo del lavoro sembra essere, ancora oggi, una dimensione di stampo machista?

«In realtà le storie ci parlano molto più di violenza in strada e all’interno dell’ambito amicale, se non domestico. Certamente anche il mondo del lavoro è terreno fertile per la violenza.

Del resto abbiamo in Italia un importante divario di genere nel mondo del lavoro e un ritardo culturale su determinate tematiche molto ampio, il resto è conseguenza».

Martina Bellani, fondatrice del blog. Dal suo profilo Instagram @martola_

Amici, parenti, fidanzati: sembra che nessun legame emotivo riesca a garantire la sicurezza delle ragazze. Negli ultimi anni si propaganda l’importanza di proporre corsi di educazione all’affettività, che però vengono spesso osteggiati da docenti e genitori: perché, secondo voi, resiste il tabù legato a sessualità e affettività, nell’Italia del 2021?

«Si ha paura di ciò che non si conosce. Molti docenti non saprebbero neanche da dove intavolare un discorso. C’è anche il pregiudizio che certe battaglie siano inutili e pretestuose, che le ragazze facciano i capricci.

Quanto poco fa ho detto sul gap intergenerazionale può produrre conseguenze diverse, anche essere un deterrente per attività di sensibilizzazione».

Quale messaggio vi piacerebbe lasciare a chi vi segue?

«Le cose che raccontiamo succedono, sono parte della realtà ma non sono l’unica parte. Vivete senza la paura di farlo. Uscite, fate festa (appena si potrà), indossate quel vestito che vi piace tanto. Non sarà mai colpa vostra. Siamo dalla vostra parte».